Sotto la storia principale del caso di Simonetta Cesaroni si nascondono almeno dieci misteriose sottotrame. 

Nei grandi racconti di Agatha Christie, spesso un piccolo dettaglio, visibile sin dall’inizio, può fare la differenza. Anche nella realtà spesso funziona allo stesso modo: ecco perché è importante soffermarsi su dieci ingombranti dubbi che orbitano attorno al delitto di Via Poma. 

Dieci incongruenze che emergono come delle stridule stonature dalla narrazione principale del crimine e che mettono ordine là dove vige il caos dal 7 agosto 1990.

Sono dieci dettagli emersi in tempi diversi di questa infinita indagine di cronaca nera e giudiziaria.

Alla base di questi dieci punti ci sono testimonianze, logica e scienza di chi sta continuando a cercare la verità, per rendere giustizia a Simonetta Cesaroni e alla sua famiglia.

Nonostante ciò, come spesso accade nel delitto di Via Poma, il dubbio non lascia mai davvero nulla di ciò che riguarda questo crimine. Per questo ci muoveremo intorno a queste dieci sottotrame, ricordando la loro natura incerta. 

Scopriamo allora questi dieci misteri del Delitto di Via Poma.

1 – SALVATORE VOLPONI

L’atteggiamento di Salvatore Volponi — superiore alla Reli di Simonetta Cesaroni — è stato oggetto di discussione per anni. 

Infatti, sin dalle ore precedenti il ritrovamento del cadavere, alcuni movimenti di Volponi furono contrastanti e sollevarono interrogativi.

Vediamo allora alcune informazioni emerse nel corso delle indagini:

  • Una volta trovato il numero di telefono dell’A.I.A.G. — operazione lunga ma in quel momento necessaria per trovare Simonetta — Paola Cesaroni (sorella della vittima) notò che il numero era in bella vista su un bloc-notes davanti a Volponi.
  • Secondo Paola e il fidanzato Antonio, fu lo stesso Volponi a dare indicazioni in auto per arrivare in Via Poma. Ricordiamo, però, che l’uomo aveva detto di non conoscere il palazzo: un comportamento contraddittorio.
  • Tra le due guardiole presenti in Via Poma, Volponi scelse di rivolgersi a quella della scala giusta — la scala B — per chiedere informazioni; inoltre, Paola lo sentì chiedere alla signora se si ricordava di lui.
  • Secondo Antonio, Volponi sembrava sapere dove si trovasse l’ufficio, dato che non diede nessun segno di esitazione o smarrimento mentre loro due salivano le scale.
  • Quando Volponi chiamò Antonio per vedere il corpo di Simonetta, il ragazzo ci mise un po’ a focalizzare la scena buia, al contrario di Volponi.
  • Infine, come riporta AICIS, al ritrovamento del cadavere Volponi si lasciò scappare la parola “bastardo”. 

Queste considerazioni sollevano un interrogativo, ovvero se l’ansiosa e lunga tiritera di Volponi servisse solo a far guadagnare tempo a qualcuno: una logica deduzione osservata anche dal giornalista Giacomo Galanti, nel podcast Le ombre di via Poma.

Pagina del 9 agosto 1990 dal quotidiano "La Stampa"

2 – SCENA DEL CRIMINE

Oggi possiamo fare delle nuove considerazioni sulla scena del crimine — l’ufficio dell’A.I.A.G. — maturate nel corso del tempo, grazie anche allo sviluppo della scienza forense. 

Infatti, il primo sopralluogo della polizia scientifica, nella notte tra il 7 e l’8 agosto, viene oggi giudicato da molti lacunoso, per:

  • la mancata documentazione di «tracce significative e fondamentali per comprendere la dinamica dell’omicidio», come sottolinea la Proposta di inchiesta Parlamentare del 2022;
  • gli errori commessi, per esempio nella conservazione degli indumenti della vittima, come sottolinea il criminologo Carmelo Lavorino;
  • la confusionaria delimitazione della scena del crimine, come si sente in una puntata del podcast Indagini di Stefano Nazzi.

3 – L’ARMA DEL DELITTO

L’arma del delitto è ancora avvolta nel mistero. Secondo il medico legale Prada, le ferite di Simonetta erano compatibili con un’arma da punta bitagliente, come un tagliacarte.

Come si può sentire nel podcast Le ombre di Via Poma, da anni circolano dubbi proprio su un tagliacarte, trovato nella stanza numero 3 dell’ufficio, sulla scrivania di Maria Luisa Sibilia, proprietaria dell’oggetto.

La stanza in questione era la stessa del telefono con le macchie di sangue. Tuttavia, durante le analisi, questo tagliacarte risultò privo di tracce, come se qualcuno lo avesse pulito.

Inoltre, sappiamo che la Sibilia aveva cercato il tagliacarte la mattina del 7 agosto, senza però trovarlo. A tal proposito non possiamo tuttavia escludere una svista della donna, come lei stessa ha poi ammesso. 

Comunque, una deduzione sul tagliacarte della stanza 3 la possiamo fare: se questo oggetto fosse l’arma del delitto, l’assassino — o chi per lui ha ripulito la scena — sapeva a chi apparteneva, avendolo rimesso nella giusta scrivania.

Purtroppo, questo tagliacarte — prova di potenziale importanza per le indagini — non è mai arrivato nelle mani del medico legale, per un confronto diretto con le ferite di Simonetta, impedendo così una conferma scientifica.

4 – SERRATURA

Secondo due relazioni di servizio della Mobile di Roma, il 7 agosto, la serratura dell’ufficio dell’A.I.A.G. era una kassel. Tuttavia, dopo il 13 agosto, sulla porta era presente una serratura mottura.

Secondo il giornalista Giacomo Galanti, con alta probabilità «l’ufficio regionale degli Ostelli di via Poma era ancora sotto sequestro», quando la serratura venne cambiata. Così come dimostra anche un ricordo del padre della vittima del 13 agosto mattina.

Le domande allora sono molte: chi ha fatto cambiare la serratura con ancora l’appartamento sequestrato? Il direttore dell’ufficio degli Ostelli? Il proprietario dell’appartamento? E come è stato possibile? 

Domande che rimangono ancora senza risposta.

5 – CHIAMATE TRA SIMONETTA E BERRETTINI

Non sappiamo molto di quello che avvenne il 7 agosto 1990 nell’ufficio di Via Carlo Poma.

Comunque dalle varie ricostruzioni — come quella del podcast Le ombre di via Poma — qualcosa è emerso:

  • Il 7 agosto, il direttore dell’ufficio Corrado Carboni era in ferie.
  • Durante l’assenza di Carboni, a fare le sue veci sarebbe stata Maria Luisa Sibilia, che riprese a lavorare, dopo le vacanze, proprio il 7 mattina.
  • Quindi, quel giorno, Simonetta avrebbe dovuto lasciare i documenti sulla scrivania di Sibilia, e non su quella di Carboni, come era solita fare.
  • Tuttavia, la Sibilia affermerà a processo di non sapere nulla su Simonetta Cesaroni, nonostante il suo ruolo ad interim da capo ufficio. 

A questo punto abbiamo però una testimonianza importante della dipendente Luigina Berrettini, poiché su di questa si stabilì uno dei margini dell’orario di morte.

Secondo questa testimonianza, Simonetta Cesaroni telefonò alla Berrettini alle 17.15 del giorno del delitto, per un codice del computer sconosciuto.

Subito dopo, la Berrettini contattò una collega, la Baldi, per farsi aiutare con il problema di Simonetta, che non sapeva risolvere. Quindi, la Berrettini sentì al telefono per una seconda volta la vittima. 

Dietro quella che sembra una buona testimonianza si nasconde però un’ombra.

Infatti, la testimonianza di Luigina Berrettini fu messa in dubbio, dato che la donna non conosceva di persona Simonetta, ma solo per contatto telefonico. 

Inoltre, la dipendente dell’A.I.A.G. disse di aver riconosciuto la vittima dalla voce e dalla cordialità: elementi deboli e di (relativa) facile simulazione. 

Schema dell'ufficio di Via Poma 2

6 – CHIAMATE ANONIME

Oggi non avremmo esitazioni a definire la morte di Simonetta Cesaroni come un femminicidio, una forma di violenza ricorrente contro le donne, che si muove all’interno di un’ideologia patriarcale.

Ecco perché — per la natura dell’omicidio — le indagini avrebbero dovuto considerare con più attenzione eventuali indizi di un femminicidio, come le telefonate anonime ricevute dalla vittima.

Infatti, come riporta Il Sussidiario, «Simonetta Cesaroni avrebbe risposto a un misterioso interlocutore che l’aveva contattata (…) presso gli uffici in cui lavorava», almeno tre volte nei giorni precedenti al delitto.

Come scrive Il Corriere, le chiamate erano «alcune colloquiali (“non mi riconosci?”), altre silenziose», sempre comunque inquietanti .

In particolare, secondo la ricostruzione firmata da Igor Patruno — uno dei massimi esperti del caso — l’anonimo chiamante avrebbe contattato Simonetta per delle avances, a partire da fine giugno o inizio luglio.

All’epoca del delitto, venne presto individuato il presunto chiamante erotico: un ragazzo affetto da un lieve ritardo mentale che, come spiega Patruno per Fq Magazine, si chiamava «Vincenzo e nel 1990 aveva 26 anni».

Inoltre, Vincenzo — il presunto interlocutore anonimo — condivideva una conoscenza superficiale con Simonetta, poiché abitava in via Squillace, vicino alla profumeria Antonella, precedente luogo di lavoro della vittima. 

Comunque, la pista sulle chiamate anonime non portò a nulla. Infatti, continua Patruno, l’indagine «venne aperta e chiusa praticamente nello stesso giorno»: il ragazzo aveva un alibi per l’omicidio e quindi non c’era interesse per lui.

Tuttavia, come riporta il giornalista, «Claudio Cesaroni, il padre di Simonetta, è sempre stato scettico sull’identificazione dell’autore delle telefonate anonime». 

Secondo il signor Cesaroni, Vincenzo fu forzato ad ammettere di essere l’autore delle chiamate erotiche anche se era «incapace di parlare o stare zitto coerentemente».

7 – L’UOMO CON IL CAPPELLO

Su Fq Magazine, Igor Patruno ha analizzato una strana testimonianza di Giuseppa De Luca, moglie del portiere Pietrino Vanacore, primo sospettato del caso.

La testimonianza della signora riguardava un misterioso individuo visto nei pressi della scena del crimine, il giorno del delitto. 

Questa ipotetica figura — ricordata da tutti come l’uomo con il cappellino — ha generato numerose incongruenze nel corso del tempo, poiché la descrizione della signora De Luca è cambiata molte volte: 

  • Inizialmente, parlava di un uomo con un fagotto, poi diventato una busta nera. 
  • La descrizione fisica dell’uomo variava: a volte biondo, altre volte rosso; a volte giovane, altre volte anziano. 
  • La camicia menzionata all’inizio si trasformò in uno spolverino. 
  • Infine, in un’intervista con il magistrato inquirente, la persona si muoveva perfino con la stessa andatura del geometra Fabio Forza, impiegato in un ufficio di Via Poma. Tuttavia, l’uomo — per fortuna — aveva un alibi forte, poichè si trovava in Turchia.

Insomma, nel tempo, solo il cappellino con visiera da motociclista rimase costante in tutte le versioni della moglie di Vanacore.

E proprio per questa volubilità dell’individuo con il cappello, si sollevarono dei dubbi sulla veridicità della testimonianza della signora, suggerendo che Giuseppa De Luca:

  • Non avesse in realtà visto nessuno e che la figura fosse stata inventata, quando le indagini cominciarono a stringersi su il marito Vanacore.
  • Avesse visto un individuo di sfuggita, non ricordando i dettagli che furono quindi inventati.

Palazzo Via Poma 2, Roma e Simonetta Cesaroni

8 – ROLAND VOLLER

Il Corriere della sera ha riportato un sottile collegamento tra due dei più noti gialli italiani: l’omicidio di Simonetta Cesaroni e quello della contessa Alberica Filo della Torre. Al centro, ad unire i due delitti, troviamo Roland Voller:

  • Nel delitto Cesaroni, era stato uno pseudo super testimone e accusatore del secondo sospettato, ovvero Federico Valle.
  • Mentre, per quanto riguarda l’omicidio Filo della Torre, fu rinviato a giudizio insieme a un ispettore di polizia, perchè trovato in possesso di informative riservate riguardanti il delitto.

Questo fil rouge evidenziò come Voller riemerse negli anni in vari contesti oscuri e più o meno complessi del panorama criminale romano.

Si ipotizzò, quindi, che Voller, noto truffatore, avesse testimoniato sul caso Cesaroni in cambio di un alleggerimento della sua fedina penale, con la complicità di qualcuno nelle forze dell’ordine.

Non è tutto. Nel caso del delitto della Torre, a testimoniare contro Voller fu una poliziotta del Sisde, ovvero un servizio segreto italiano, attivo dal 1977 al 2007.

Quindi, ancora una volta si nominarono i servizi segreti nell’ambito di Via Poma, alimentando, in questo caso, i sospetti che anche Voller avesse dei contatti con loro.

9 – IL CELERE ARRESTO DI PIETRINO VANACORE

Da subito, nonostante le prove arbitrarie, la stampa iniziò a descrivere Vanacore come “il portiere dagli occhi di ghiaccio”, dipingendolo come un mostro da prima pagina.

Con il senno di poi, invece, molti esperti hanno ritenuto che l’arresto di Vanacore abbia solo complicato le indagini, rovinando la vita di un uomo innocente. 

Perché allora Pietrino Vanacore fu arrestato così presto senza prove certe? Una risposta forse non c’è. 

Possiamo però farci raccontare dalle pagine dell’epoca come quell’agosto, il delitto di Via Poma, nonostante la sua efferatezza, divenne “l’omicidio dell’estate”: una narrazione da consumare in spiaggia, da una nazione annoiata. 

In secondo luogo, la pressione su inquirenti e magistrati era enorme. Tant’è che un magistrato rivelò al giornalista Emilio Radice, che l’arresto di Vanacore fu forzato da alcune pressioni dall’alto, come riportato nel podcast Le ombre di via Poma.

Alla luce di queste considerazioni, l’arresto di Vanacore oggi appare più come una caccia al mostro o una vendetta collettiva, che una reale ricerca della verità. 

10 – A.I.A.G.

Sull’appartamento 7 al terzo piano di Via Poma 2 si potrebbe parlare a lungo.

Soprattutto perché oggi, per molti esperti del caso, è proprio all’interno dell’ufficio dell’A.I.A.G. che si nasconde la verità sul delitto di Via Poma.

E la prima domanda da farsi sarebbe: perché Simonetta lavorava lì?

Se ufficialmente il Presidente degli Ostelli Caracciolo aveva bisogno di qualcuno per chiudere la contabilità estiva, visto il ritardo nell’immissione informatica dei dati, dall’altro lato rimangono molti dubbi a riguardo.

Infatti, secondo molte testimonianze, la contabilità arretrata dell’ufficio poteva essere gestita internamente e, al momento dell’arrivo di Simonetta, in realtà era quasi tutto completato. Perché allora Caracciolo chiese un aiuto alla Reli?

Inoltre, ricordiamo che, nonostante il lavoro fosse temporaneo, Simonetta era stata affiancata a un tutor — il ragionier Menecocci — con il fine di formarla. Per quale motivo?

Se ad oggi gli esperti del caso pensano che non ci fosse nessun accettabile motivo per cui Simonetta dovesse lavorare all’A.I.A.G., è proprio da questa incongruenza che per loro si dovrebbe ripartire. 

Conclusioni: le sottotrame della narrazione principale del delitto di Via Poma

Anche se a volte ce lo dimentichiamo, al centro di un’indagine di cronaca nera c’è sempre e solo la giustizia per una vita spezzata, come quella della giovane Simonetta Cesaroni. 

Simonetta — che per fortuna in molti ricordano come la ventenne delle foto al mare — a distanza di decenni non ha ancora ricevuto giustizia. Così come non l’ha ricevuta la sua famiglia. 

Intorno alla sua immagine in spiaggia, da anni girano nomi, piste e purtroppo molti silenzi. Inoltre, fuori da questo cerchio orbitano piccole storie, fatte di dubbi, misteri ed incertezze. 

Proprio come i dieci misteri analizzati in questa pagina che, se chiariti, potrebbero forse guidare gli inquirenti sulla strada principale, portandoli così alla destinazione finale: ottenere giustizia per chi non c’è più.

Allo stesso tempo, analizzare le sottotrame della narrazione principale ci permette di individuare gli errori commessi, ciò che poteva essere fatto meglio, le responsabilità individuali e, infine, le colpe della società.

Una società che, nell’agosto del 1990, era assetata di sensazionalismo e desiderava solo immergersi nel delitto dell’estate.

Anna Ceroni
Agenzia Corte&Media
Data di pubblicazione: 21.07.2024

Igor Patruno: intervista al giornalista Emilio Radice