Affare Montesi. Il cinema imita la cronaca nera, nel film ambientato ai tempi della Hollywood romana.
Droga, sesso e vanità. Nel film drammatico Finalmente l’alba, gli specchi che dai set di Cinecittà, a Roma, portano alle ville dell’élite romana di Capocotta riflettono queste immagini.
Nel mezzo, poi, troviamo la spiaggia di Torvaianica, dove fu trovato il corpo senza vita di Wilma Montesi, vittima del cold case che sconvolse l’Italia nel 1953. E negli anni a seguire.
Ed è proprio l’affari Montesi a fornire gli elementi narrativi del film. E non tanto per ciò che sappiamo sul delitto, ma per quello che potrebbe essere accaduto e per ciò che è stato raccontato.
Dal 1953 ad oggi, in effetti, stampa e opinione pubblica hanno detto molto sulla morte di Wilma Montesi. Nulla però hai mai chiarito le ultime ore di vita della ragazza romana di ventuno anni.
Un caso di cronaca nera che, per le sue implicazioni mediatiche, politiche e sociali, è da anni un triste simbolo delle ombre degli anni ’50.
Non solo: il Caso Montesi è anche un simbolo culturale ricorrente. Negli anni, infatti, numerosi film, canzoni e romanzi hanno dedicato un pensiero alla giovane vittima.
Proprio come Finalmente l’alba di Saverio Costanzo, in cui il delitto funge da collante dei diversi quadri della pellicola: un crudo spaccato sociale di quel piccolo mondo romano chiamato Cinecittà.
Il film — girato in alcuni celebri luoghi della Capitale — è disponibile su Sky e Now Tv. Inoltre, potrete vedere Finalmente l’alba a pagamento in molte delle principali piattaforme streaming.
LA TRAMA E IL CAST DEL FILM
Il film Finalmente l’alba è ambientato nella Roma del 1953, in una fortunata e allo stesso tempo oscura Cinecittà. Il periodo è quindi quello della “Hollywood sul Tevere”, il momento di massimo splendore del cinema italiano.
La storia segue Mimosa (Rebecca Antonaci), una giovane diciottenne timida e riservata in una lunga notte, che si trasforma in un viaggio di crescita.
Tutto inizia quando Mimosa accompagna la sorella maggiore Iris (Sofia Panizzi) a un provino per un kolossal americano sull’antico Egitto.
Mentre Iris ottiene solo un’apparizione fugace tra centinaia di comparse, Mimosa viene scelta come figurante speciale. E a notarla è Josephine Esperanto (Lily James), la star del film.
Nonostante le iniziali esitazioni, Mimosa accetta. Anche perché il co-protagonista del film è il suo idolo, Sean Lockwood (Joe Keery).
Finita la giornata, Josephine invita Mimosa ad una festa esclusiva, che la scaraventa in un universo di apparenze, rivalità e sregolatezze.
In questa notte memorabile, Mimosa è trascinata in un vortice di emozioni da alcuni personaggi stravaganti. Come, per esempio, il misterioso Rufo Priori (Willem Dafoe) e la celebre diva italiana Alida Valli (Alba Rohrwacher).
La recensione del film Finalmente l’alba
Guardando il film, la mia mente è tornata nelle aule dell’università di Verona, ai tempi delle lezioni di cinema. E, in particolare, a quella sognante lezione su Federico Fellini e il suo capolavoro, il film La dolce vita.
Dietro e davanti la macchina da presa in molti devono avere pensato lo stesso: troppi sono i riferimenti al maestro Premio Oscar, per non crederlo.
A partire dall’ambientazione. Una notte romana che sembra infinita, in una Roma scintillante e allo stesso tempo piena di ombre dell’età dell’oro del cinema italiano.
Poi la costruzione del film: dei piccoli quadri dominati da un personaggio magnetico, che si fa strada tra alcune macchiette della società romana.
Fino ad arrivare al delitto. La citazione all’Affare Montesi, presente per molti anche nel capolavoro del 1960 di Fellini.
Come ricorda Fata Morgana, infatti, in La dolce vita, alcuni personaggi «vedono arenato un mostro marino» sulla spiaggia illuminata dall’alba. In questa sequenza, più di qualcuno «ha visto un’allusione al corpo di Wilma trovato sul bagnasciuga di Torvaianica».
Un’ipotesi appoggiata anche da un’altra scena del film di Fellini, quella dell’orgia. Si tratta di un ulteriore richiamo a Wilma Montesi e a una delle tante fantasticherie dette sulla giovane.
Insomma, questa piccola lezione di cinema serve a dire una cosa: ieri come oggi, i registi sembrano attratti dal vaneggiamento con cui i media e la società hanno trattato l’Affare Montesi. Tanto da trasformare il delirio mediatico in musa narrativa.
DAL FILM AL COLD CASE: IL RISCATTO DEGLI INNOCENTI
Il film Finalmente l’alba ci porta nel periodo della “Hollywood sul Tevere”, attraverso il personaggio di Mimosa: una giovane ragazza che si trova incastrata in una notte di apparenze e sregolatezze.
La storia del film evoca il caso Montesi, un episodio di cronaca nera che sconvolse l’Italia: un mistero complesso, con ramificazioni profonde nei media, nella politica e nella società dell’epoca.
Per presentare il film alla 80ª Mostra di Venezia, il regista Saverio Costanzo ha confermato di essere partito dall’omicidio della giovane Wilma per girare la pellicola: un delitto «che rappresentò per l’Italia il primo caso di assassinio mediatico».
Costanzo ha poi aggiunto un dettaglio importante sul caso di cronaca nera, ovvero il suo impatto mediatico. A tirare le fila del delitto, infatti, c’è sempre stata una stampa senza scrupoli, che ha speculato senza indugi sulla vicenda.
E proprio a causa dell’atteggiamento pettegolo dei media, nel 1953 si registra una malsana ossessione del pubblico nei confronti del delitto. Fino a che l’attenzione non si sposta dalla vittima al carnefice.
Infatti, come spesso accade ancora oggi, ad un certo punto la vittima scompare dalle pagine dei giornali. Al suo posto troviamo una «passerella dei suoi possibili carnefici».
Per questo motivo, il regista ha deciso di offrire un riscatto a Wilma Montesi. Con il suo film, Saverio Costanzo riporta l’attenzione su Wilma, attraverso il personaggio di Mimosa.
Il film si è così trasformato da un documento di cronaca nera, ad un «riscatto dei semplici, degli ingenui».
LA SPIEGAZIONE DEL FINALE DEL FILM
Nel finale di Finalmente l’alba l’intento del regista è chiaro: offrire un riscatto simbolico a Wilma Montesi, che nel film rivive nel personaggio di Mimosa.
La giovane protagonista riesce a superare una notte romana densa di rivalità, droghe e pericoli, affrontando infine l’ultimo ostacolo: la disillusione di un amore fugace.
All’alba, la vediamo scendere dalle scalinate di Trinità dei Monti, e lì si trova di fronte alla leonessa di Cinecittà, la stessa che la mattina precedente l’aveva tanto terrorizzata.
In quelle poche ore, però, Mimosa ha attraversato il passaggio dall’età dell’innocenza a quella adulta, superando molte delle sue paure: ora la leonessa non la spaventa più.
Mimosa allora cammina fianco a fianco all’animale simbolo dei suoi incubi infantili, segnando la sua rinascita. E, in parallelo, in quello sguardo fiero della protagonista, si compie la rivincita simbolica di Wilma Montesi.
Il Caso Montesi: il cold case dietro Finalmente l’alba
Il corpo di Wilma Montesi viene trovato sabato 11 aprile 1953 sulla spiaggia di Torvaianica, a sud di Roma. La ragazza era scomparsa da casa due giorni prima, il 9 aprile.
Quello che all’inizio sembra un tragico incidente si trasforma però ben presto in un enigma intricato.
Negli anni si parlerà di personaggi dell’alta società, del mondo politico e dell’intrattenimento. Si affiancheranno però solo speculazioni, teorie cospirative e scandali mediatici, a discapito della giustizia e del rispetto della vittima.
Oggi il caso rimane irrisolto.
WILMA MONTESI
Wilma Montesi era una ragazza di 21 anni, proveniente da una modesta famiglia di Roma. Descritta come una giovane riservata e tranquilla, stava per sposarsi con un agente di polizia.
Wilma non faceva parte dei circoli mondani della capitale. Anche se, c’è da dire, coltivava il sogno di entrare nel mondo dello spettacolo, come molte coetanee romane: per questo aveva partecipato come comparsa a qualche produzione.
La sua era comunque una vita semplice e ordinaria in netto contrasto con l’intrigo e lo scandalo che seguirono la sua misteriosa morte.
IL RITROVAMENTO DEL CADAVERE
Wilma Montesi viene trovata senza vita sulla spiaggia di Torvaianica, vestita solo con una sottoveste e con le gambe immerse nell’acqua.
A prima vista, il corpo non presenta segni evidenti di violenza, così come sotto l’occhio indagatore del medico legale.
Da subito circolano molti dubbi e ben poche certezze, che nemmeno gli esami scientifici riescono a chiarire.
Ciò nonostante, dopo soli cinque giorni, il questore di Roma, Saverio Polito, chiude il caso, seguendo la tesi del “pediluvio fatale”.
IL PEDILUVIO FATALE: LA PRIMA TEORIA
Secondo questa teoria, Wilma quel pomeriggio si reca a Ostia. Una volta in spiaggia entra in mare — forse per curare un eczema — e, al contatto con l’acqua fredda, viene colta da un malore.
A quel punto, priva di sensi in acqua, la ragazza annega e il suo corpo viene trasportato dalla corrente marina fino alla spiaggia di Torvaianica.
L’ipotesi del pediluvio fatale appare bizzarra oggi, come nel 1953.
E anche se fosse plausibile, comunque questa teoria non riuscirebbe a rispondere ad una serie di domande: perché Wilma si trovava così lontano da casa da sola? Era accompagnata da qualcuno? E perché non aveva alcuni capi addosso?
Dobbiamo ricordare, a tal proposito, che siamo nei casti e rigidi anni ’50 italiani.
Inoltre, anche se l’autopsia non ha mai rilevato segni evidenti di violenza, né tracce di stupefacenti o alcol, un’informazione importante è emersa in un secondo esame autoptico.
Infatti, la perizia del professor Pellegrini ha in seguito rilevato «tracce di sabbia nelle parti intime», come riporta Il Corriere, compatibili con un tentativo di violenza sessuale.
Parliamo di tentativo non riuscito perché entrambi gli esami autoptici hanno sempre confermato la verginità della vittima: un dettaglio importante per l’imminente caos mediatico.
I FESTINI A CAPOCOTTA: LA SECONDA TEORIA
La svolta nel caso Montesi arriva quando la stampa e l’opinione pubblica iniziano a sospettare qualcosa di più sinistro.
Queste speculazioni prendono forma con il giornalista Silvano Muto, che nell’ottobre 1953 pubblica sul settimanale Attualità, un’inchiesta sulla morte di Wilma Montesi.
Muto disegna uno scenario ben diverso per spiegare la morte sospetta della ventunenne.
Secondo la teoria del giornalista, Wilma sarebbe morta nella riserva di Capocotta — a circa 7 km da Torvaianica — dopo un festino con personaggi conosciuti, giovani donne e droga.
Come ricorda History Lab Magazine, «Muto non fa nomi, ma era noto che il marchese Ugo Montagna» gestiva quella riserva.
Durante le nuovi indagini, oltre a Montagna, emerge un altro nome di spicco: Piero Piccioni. Il 32enne era figlio di Attilio Piccioni, all’epoca vice-presidente del Consiglio dei ministri e figura di spicco della Democrazia Cristiana.
IL PRIMO PROCESSO
Il caso di cronaca nera locale diventa presto nazionale, dividendo l’opinione pubblica tra innocentisti e colpevolisti. In breve tempo, la discussione passa nelle aule di tribunale.
Durante il processo il giornalista Silvano Muto rivela ulteriori informazioni, che sembrano supportare la teoria dei festini.
Il giornalista riferisce la confessione di due informatrici, le quali gli avevano confidato «di aver partecipato con Wilma a certi festini a base di stupefacenti», come riporta History Lab Magazine.
Le due donne avevano inoltre aggiunto che alcuni dei partecipanti erano «esponenti della borghesia romana». Infine, secondo le informatrici, tra i presenti «si nascondevano i responsabili della morte della ragazza».
ANNA MARIA MONETA CAGLIO: LA SOTTOTRAMA
Il nome di una delle informatrice è Anna Maria Moneta Caglio, ex fidanzata di Montagna.
La donna inizia a sospettare di Piccioni e Montagna dopo un loro incontro riservato con il capo della polizia Pavone, poche settimane dopo il caso Montesi.
A questo punto inizia a prendere forma un ulteriore sospetto: forse il capo della polizia aveva favorito Montagna e Piccioni per ripagare un vecchio favore, risalente alla Seconda Guerra Mondiale.
Infatti, secondo un rapporto su Montagna, il marchese durante l’occupazione di Roma aveva liberato Pavone dal carcere, come collaboratore dell’Ovra.
SECONDO PROCESSO
Vista la situazione, l’inchiesta viene affidata al giudice istruttore Raffaele Sepe. Il giudice come prima cosa avvia «un’indagine amministrativa sull’operato della polizia», come ricorda History Lab Magazine.
Obbligato dall’inchiesta giudiziaria, Attilio Piccioni si dimette e, due giorni dopo, vengono «emanati i mandati d’arresto per il figlio e per Montagna».
A queste azioni segue una lunga inchiesta, che porta solo il 21 gennaio 1957 al secondo processo del Caso Montesi.
Dopo cinque mesi si arriva al verdetto. Nonostante la tesi del pediluvio fatale venga dichiarata ancora una volta ridicola, il processo si conclude con un nulla di fatto.
Infatti, il giudice dichiara la non colpevolezza di Piccioni, assolto con formula piena, grazie anche a due testimoni, come ricorda Il Corriere:
- l’attrice Alida Valli, allora fidanzata di Piccioni, che dichiara «di esser stata con lui a Ravello nei giorni precedenti la tragedia».
- Un medico, «che afferma di averlo visitato proprio il pomeriggio del 9 aprile e di avergli consigliato di stare a letto nelle ore successive».
Nello stesso processo, il giudice assolve anche Ugo Montagna e Saverio Polito dall’accusa di favoreggiamento.
Ad oggi, le uniche condanne in relazione all’Affare Montesi sono del 1967.
La Corte di Cassazione, quattordici anni dopo il caso, infatti, ha condannato per calunnia il giornalista Silvano Muto e Anna Maria Moneta Caglio.
L’IMPATTO MEDIATICO E CULTURALE
Su alcune pagine dell’epoca di Il Corriere si legge una cosa molto interessante: nel 1953 la città di Roma non parlava e non pensava ad altro, se non all’Affare Montesi.
Perché, a prescindere dalla causa di morte (omicidio, suicidio o incidente), le circostanze della morte di Wilma Montesi hanno di certo modificato la cronaca nera italiana.
La vicenda, infatti, viene spesso considerata come il primo caso mediatico di cronaca nera d’Italia.
Lo dimostra, per esempio, l’influenza dei media sull’opinione pubblica e sull’esito delle indagini giudiziarie. Uno dei risultati? La perdita di elettori del partito democristiano nel 1953, a seguito dello scandalo Piccioni.
O, ancora, la necessità di spostare il secondo processo da Roma a Venezia, per garantire l’imparzialità del processo e per ragioni d’ordine pubblico.
Non è tutto. Il caso Montesi ha anche inaugurato «un nuovo modo di fare giornalismo», come specifica Il Corriere: «una gara serrata tra le maggiori testate nazionali a dare per primi indiscrezioni e novità investigative».
Tutto era valido, anche «scavare morbosamente nella vita dei personaggi coinvolti».
LA CITTÀ ETERNA E I SUOI COLD CASE
La maggior parte delle teorie sul caso Montesi hanno sempre coinvolto personaggi di spicco della società romana. Questo aspetto ha messo in luce una netta distanza sociale tra l’ambiente della vittima e quello dell’ipotetico omicida.
Un quadro criminologico e sociale che in realtà negli anni è spesso apparso in altri delitti della capitale, come in quello di Simonetta Cesaroni.
E come il delitto di Via Poma, il caso Montesi ha avuto un forte impatto sulla società italiana, segnando una svolta nel rapporto tra stampa, politica e giustizia.
Nonostante il forte interesse e le numerose ipotesi, sia il caso Montesi che il delitto di via Poma rimangono però irrisolti.
Il messaggio del film Finalmente l’alba sulla cronaca nera
Il caso Montesi è stato un precursore delle dinamiche mediatiche che vediamo ancora oggi all’interno della cronaca nera, sempre più sensazionalistica e poco scientifica.
Finalmente l’alba non si limita quindi a raccontare solo una storia ambientata nel passato.
Il regista, infatti, ci invita a riflettere su come la realtà possa essere distorta: in un’era in cui l’informazione è sempre più falsificabile da chiunque, è essenziale mantenere un occhio critico su ciò che ci viene raccontato.
Il secondo spunto di riflessione del film riguarda il mondo cinematografico: un microcosmo di illusioni, ripicche e spesso molti pericoli.
Lo abbiamo appreso anche con lo scandalo mondiale del #metoo nel 2017, che ha coinvolto uno dei più importanti produttori di Hollywood: Harvey Weinstein.
Infine, forse il pregio più grande del film: il ricordo della vittima.
Il regista Saverio Costanzo, attraverso il personaggio di Mimosa, è infatti riuscito a restituire la voce a Wilma Montesi: una giovane donna il cui destino è stato sfruttato dai media, dalla politica e dall’opinione pubblica.
Anna Ceroni
Agenzia Corte&Media
Data di pubblicazione: 02.09.2024
Il trailer del film Finalmente l’alba
Saverio Costanzo racconta il cinema degli anni ’50: Il Sole 24 Ore
Il Caso Montesi: il video di Elisa True Crime
Autrice e copywriter. Laureata magistrale cum laude in Editoria e Giornalismo, ama analizzare e divulgare crimini e ingiustizie di ogni tipo: dai misfatti di Hollywood ai reati ambientali.




