L’esempio di come gestire da dilettanti un conflitto familiare. Fallire la mediazione porta diritto alla tragedia.
C’è un modo efficace di gestire i conflitti e di fare mediazione interculturale. E c’è un modo efficace di fare la parte della Polizia. Perché compito della Polizia è assicurare l’ordine, non di risolvere i problemi personali e sociali.
Nel film thriller Un giorno e mezzo, su Netflix, abbiamo la dimostrazione di quanto l’impreparazione e la visione limitata complichino le situazioni complesse, invece di risolverle.
Abbiamo dalla storia del film la dimostrazione di come fare Polizia in un modo stupido porti diritto alla tragedia.
I conflitti familiari e sociali non si gestiscono, infatti, con le armi, le divise e le auto con le sirene delle forze dell’ordine.
Soprattutto, è importante che ciascuno faccia la sua parte.
Gli psicologi mediatori e negoziatori facciano gli psicologi. I genitori facciano i genitori. I nonni facciano i nonni. Gli uomini e le donne armati facciano i poliziotti, senza intromettersi là dove la forza non porta a nulla.
Ciascuno dovrebbe intervenire nel proprio ruolo. Ciascuno dovrebbe evitare di fare il mestiere degli altri.
Nel film Un giorno e mezzo abbiamo invece una confusione di ruoli che rischia di portare al disastro.
Il film thriller su Netflix è soprattutto la dimostrazione di quanto la negoziazione, la mediazione interculturale e la gestione dei conflitti richiedano figure specializzate: figure preparate, dotate di umanità e che sanno come intervenire.
Un giorno e mezzo. La trama
La storia è ambientata in Svezia. Un uomo separato dalla moglie, Artan, di origini albanesi (interpretato dall’attore svedese Alexej Mavelov) fa irruzione in un centro sanitario dove lavora la moglie Louise, che ha avuto in affido esclusivo la figlioletta Cassandra.
Artan è armato di pistola e deciso a vedere la figlia: decide, per questo, di sequestrare la moglie Louise (interpretata dall’attrice finlandese Alma Pöysti).
Pressato dalla polizia, Artan accetta l’intervento di un ufficiale di polizia, Lukas, che ha il compito di gestire la situazione. Lukas è l’unico con cui Artan vuole trattare.
Lukas è interpretato dall’attore Fares Fares, libanese immigrato in Svezia quando aveva 14 anni, che cura anche la regia del film proposto da Netflix.
Il lavoro di mediazione di Lukas, che cerca di assecondare le richieste di Artan, è però complicato dalla presenza asfissiante delle forze di polizia.
Gli agenti, schierati con più auto, tallonano la macchina con cui il sequestratore Artan, la moglie Louise e l’ufficiale di polizia Lukas si muovono per far incontrare il padre sequestratore con la figlioletta Cassandra.
UN DRAMMA ON THE ROAD
Siamo di fronte a un dramma on the road in piena regola. Le auto della Polizia vanno a rimorchio del sequestratore in fuga: il problema è che sono inutili in caso di intervento armato. E sono dannose, con la loro presenza evidente, nella gestione del conflitto in atto.
Il viaggio che porta sequestratore e sequestrati ad attraversare la campagna svedese, durante una calda estate con la polizia alle calcagna, può avere ogni tipo di esito.
Il finale si presta a ogni tipo di soluzione: dalla resa del sequestratore Artan, che lamenta l’essere stato discriminato come immigrato, alla strage familiare.
Quello che è all’apparenza solo un dramma familiare – un padre esasperato che sceglie l’azione criminale per vedere la figlia – diventa un’occasione di riflessione su almeno tre punti:
- la relazione tra genitori e figli, con i nonni svedesi di Cassandra che si intromettono nelle dinamiche della figlia Louise, peraltro instabile sul piano psicologico;
- la relazione interculturale tra la moglie e i genitori svedesi, da un lato, e il marito e genero albanese immigrato;
- una maldestra gestione del conflitto, la negoziazione inefficace e il ruolo modesto di una Polizia che non è capace di agire in modo efficace e si affida solo alla prova di forza
La recensione del film
Scrive Francesco Del Grosso sul magazine online Cinematographe: “Per il suo esordio dietro la macchina da presa, l’attore libanese naturalizzato svedese Fares Fares porta sullo schermo un dramma umano dalle venature thriller ispirato a fatti realmente accaduti”.
Prosegue l’articolo: “Il risultato è un film che si alimenta di tensione ed emozioni cangianti che toccano strada facendo picchi molto alti. Il neo regista dirige con mano sicura un’opera tecnicamente classica e lineare, con l’autore che si sdoppia per interpretare anche uno dei ruoli principali al fianco di colleghi affidabili come Alexej Mavelov e Alma Pöysti”.
“Le performance attoriali sono l’altro valore aggiunto di una pellicola“, conclude l’articolo di Cinematographe, “che non passera di certo alle cronache, ma che lascerà una scia emotiva in chi deciderà di vederla“.
Scrive Alessandro Aru sul magazine online Wonder Channel: “Il film non è semplicemente la rappresentazione di un ex marito che perde la testa. Va molto oltre”.
Prosegue l’articolo: “Artan è certamente in una situazione disperata e compie scelte disastrose, ma anche lui è un essere umano, spinto all’angolo in modi veramente brutali. E poi c’è Louise, l’ex moglie, che ha i suoi demoni e problemi personali che non sto qui a svelare”.
“La dinamica tra i due è complessa e l’arrivo dell’agente di polizia Lukas, incaricato di gestire la delicata situazione degli ostaggi, aggiunge un ulteriore strato di complessità”, continua l’articolo di Wonder Channel. “Lukas si trova a dover capire come mai due persone che una volta si amavano siano arrivate a un punto così drammatico”.
Scrive Priscilla Lucipora sul magazine online Dituttounpop: “Lungo il viaggio, quello che sembra un caso in bianco e nero diventa grigio, sfumatissimo, e veniamo a contatto con un’intersezione di problematiche. C’è la salute mentale, c’è il razzismo, c’è chiaramente anche il rapporto uomo donna”.
Prosegue l’articolo: “Questo film riesce a tenere la tensione anche dando spazio a questa complessità, che si cristallizza in un finale apparentemente anticlimatico, ma umano. Le prove attoriali sono superlative.”
L’analisi del film Un giorno e mezzo
Il film Un giorno e mezzo ci mostra come dalle vicende reali sia possibile trarre una lezione. È la lezione di una storia che presenta la vita vera nelle sue più diverse sfaccettature.
All’inizio del film thriller di Netflix siamo convinti di trovarci di fronte al classico dramma familiare di un padre privato della figlia.
Il marito e padre Artan ha perso la testa, ci viene da pensare. È passato armi e bagagli dalla parte del torto. Si è messo in mano una pistola e ha minacciato la moglie Louise e tutte le persone presenti al centro sanitario dove lei lavora.
Uno così, ti vien da dire, non merita clemenza. Né comprensione.
Ora si tratta di capire come la situazione verrà gestita dalla Polizia.
L’intervento esagerato delle auto dei poliziotti ci dà subito la misura di quanto la Polizia si voglia aggiudicare la primazia nel gestire il caso.
Con questo non voglio dire, sia chiaro, che la Polizia non è necessaria. Il problema è un altro: l’uso della forza richiede misura e astuzia. Perché l’obiettivo non è comandare, ma risolvere il conflitto.
C’è poi da capire come si comporteranno Artan e la moglie Louise. Entrambi, lo si nota, dipendono dal contesto in cui tutto accade.
Il venire a conoscenza che Artan ha avuto una condanna per aggressione lo rende ancor più pericoloso. Viene spontaneo farci il profilo di un uomo violento che non sente ragioni. E che può combinare di tutto: anche sparare e uccidere.
L’aggiunta della condizione di albanese immigrato e che – secondo lui – è stato discriminato ci porta a pensare che Artan non ha nulla da perdere. E che soprattutto non ha nulla più da difendere, come cittadino.
IL FALLIMENTO DELLA MEDIAZIONE
Quello che più sconcerta alla fine del film Un giorno e mezzo è come il fallimento della mediazione – fondato su una comunicazione casuale e senza empatia – possa provocare disastri.
Non voglio qui spoilerare il finale del film: non cambierebbe il mio giudizio né di fronte a una strage familiare, né di fronte a un attacco sanguinoso della Polizia, né di fronte a una soluzione pacifica.
Quello che conta è guardare con occhio critico come si muove chi ha in mano la situazione.
Attenzione: non è Artan a comandare, anche se il fatto che abbia una pistola e minacci di morte la moglie Louise ci induce a crederlo.
Artan sta guardando ciò che ha provocato – e ciò che gli accade attorno – con uno sguardo ad angolo acuto.
C’è come un paraocchi convergente che gli impedisce di vedere altre soluzioni. Si ferma alle scelte istantanee e senza pianificazione. Rischia così di compromettere se stesso e chi ama.
Un buon mediatore – che conosce le tecniche di comunicazione e di negoziazione – saprebbe come gestire questa situazione. E condurla in porto senza problemi.
Si porrebbe, innanzi tutto, come figura terza rispetto ai due coniugi in conflitto. Metterebbe in campo un’analisi empatica sia della figura del marito Artan che della moglie Louise.
LA GESTIONE DELLA FORZA
Un buon mediatore gestirebbe la forza con moderazione, per evitare che il suo ruolo sia invalidato, passando per uno di parte (uno “sbirro” che non si smarca da chi lo comanda). E porterebbe chi minaccia, il marito Artan, a staccarsi dalla sua fissità; e dalla sua angolazione ristretta.
Assistiamo invece a un fallimento della mediazione tra il marito Artan e la moglie Louise, tra l’immigrato Artan e i suoceri svedesi, tra la figlia Luoise e i genitori.
Sia il padre che la madre di Louise rappresentano, nel privato, ciò che la Polizia svedese sta facendo – con un atto stupido nella sua miopia – sul piano del teatro sociale dell’evento.
I genitori di Louise e la Polizia agiscono secondo schemi e pregiudizi meccanici, ingessati, che evitano di modularsi sulla situazione.
I genitori di Louise, che custodiscono la piccola Cassandra, non si schiodano dal loro comportamento di chiusura verso Artan. E dal loro giudizio senza appello verso il genero immigrato albanese.
La Polizia svedese, che ha il compito di riportare l’ordine, non si schioda dal suo protocollo: agisce solo per mettere alle corde il sequestratore Artan. Non comprende che in questo modo complica la situazione, anziché risolverla.
PREGIUDIZIO E CRIMINALIZZAZIONE
Il poliziotto Lukas dimostra sin dall’inizio tutta la sua impreparazione nella gestione del conflitto tra il marito Artan e la moglie Louise.
Agisce come un poliziotto alle prime armi, costretto a seguire le indicazioni che vengono dal comando. Non mostra di avere l’esperienza che la situazione richiede.
L’impreparazione e l’inefficacia di certa Polizia sono ben mostrate dal regista di Un giorno e mezzo. Lo vediamo proprio nel momento l’intervento di un negoziatore si rivela inutile. Qui l’uso della forza rivela la sua inefficacia.
Il fatto che il marito Artan rifiuti un negoziatore della Polizia, che si vuole inserire nella dinamica del conflitto, è un elemento interessante: prova che Artan ha capito come non si voglia ascoltarlo, .
Artan ha capito che non si vuole capire la situazione da un punto di vista equidistante. E che si cerca soltanto di fotterlo.
La svolta può solo avvenire quando chi media – ovvero l’ufficiale di Polizia Lukas – mostri comprensione umana verso Artan. E metta in campo la propria umanità.
Questo non significa in alcun modo giustificare l’illegalità e la violenza. Vuol dire saper scegliere quali strumenti utilizzare per ottenere il migliore dei risultati.
Il pregiudizio e la criminalizzazione non portano da nessuna parte, ci dice il film del Fares Fares (che interpreta anche il poliziotto Lukas).
COSA CI LASCIA IL FILM “UN GIORNO E MEZZO”
Il film thriller Un giorno e mezzo è un’occasione per esercitare al meglio il nostro pensiero critico e la spinta alla comunicazione autentica:
- ci porta a riflettere sulle nostre relazioni con le persone diverse da noi;
- esercita la nostra capacità di comprendere le situazioni più complesse;
- ci fa riflettere sul valore della comunicazione, fondata sull’ascolto e sul dialogo;
- ci mostra come vi sia sempre una via d’uscita da un conflitto, purché lo si voglia;
- ci dimostra che il modo pregiudiziale, meccanico e stereotipato di agire non porta a risultati e complica le situazioni
Tutto questo il film Un giorno e mezzo, proposto da Netflix, ce lo pone senza farlo pesare.
La storia è coinvolgente. Ben costruita. Convincente, perché basata su brani di vita vera.
Ci basta solo andare oltre il velo di quella che sembra una comune, seppur violenta, lite tra coniugi. Possiamo così cogliere ciò che il film di Fares Fares ci insegna, senza volersi mostrare maestro di vita.
La lezione del film Un giorno e mezzo è che in tutte le situazioni complesse siamo chiamati ad andare oltre il nostro naso. Oltre il nostro interesse. Oltre il nostro pregiudizio.
Comunicare in modo autentico conviene a tutti. A chi detiene da sempre la forza. E a chi alla forza disperata si aggrappa, nell’illusione di avere ragione dei torti subiti.
Maurizio Corte
corte.media
Il trailer del film thriller Un giorno e mezzo
La tua prima luna. Claudio Rocchi
In questo vecchio pezzo del cantautore Claudio Rocchi la rappresentazione di come le diversità – quella di chi cerca la libertà e quella della Polizia – siano inconciliabili se nessuno si stacca dalla propria fissità. E si mette in gioco.
Un giorno e mezzo. Video recensione (in inglese)
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Sono un giornalista, scrittore e media analyst irriverente. Insegno Comunicazione Interculturale, Giornalismo e Multimedialità all’Università di Verona. Ti aiuto a capire i media e la comunicazione per poterli usare con efficacia e profitto. Come? Con il pensiero critico, la comunicazione autentica e l’approccio umanistico applicati al mondo del crimine e della giustizia. Iscriviti alla newsletter Crime Window & Media. Per contattarmi: direttore@ilbiondino.org