Il film su Sky gioca con il pubblico. E semina una serie di indizi narrativi prima di svelare il mistero sulla sparizione di tre adolescenti.
Il cambio altalenante dei ruoli tra i due protagonisti rende il film Ai confini del male la copia carbone di un prodotto americano, il cui riflesso instabile se venisse schiarito allo specchio rivelerebbe il colpevole già dal primo ciak.
Il film è su Sky Tv e sulla piattaforma streaming di Now.
I due carabinieri, protagonisti della pellicola, sono l’unica ragione per cui il pubblico non riesce a risolvere subito il caso. I loro giochi nell’ombra e le loro azioni criptiche distraggono il pubblico, e lo impegnano a concentrarsi su altro senza badare agli indizi narrativi sparsi qua e là.
Una regola dei thriller è quella di giocare con l’apparenza, che spesso e volentieri inganna il pubblico. Nel film tre ragazzi scompaiono dopo un rave, sin da subito le ricerche si concentrano solo su due di loro. La terza ragazza non è una priorità e per questo viene esclusa dalle indagini ufficiali.
Quello che sfugge alla comprensione sono prima le priorità e poi le modalità di ricerca che portano i genitori dei ragazzi scomparsi a sviluppare reazioni diverse nei confronti della terribile vicenda.
Mentre i genitori della prima ragazza si presentano già distrutti e avviliti dalla scomparsa della figlia, i genitori del ragazzo hanno i nervi saldi. Il loro unico figlio è scomparso senza lasciare tracce e la notizia non sembra preoccuparli.
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Si sfiorano solo in superficie, senza toccare con anima e sentimento, le diverse sfaccettature che caratterizzano il complesso rapporto tra genitori e figli.
Le relazioni tra i personaggi che si intrecciano con la trama principale sono un diversivo che serve solo a riempiere lo spazio e il tempo della narrazione.
Ai confini del male è la pellicola in cui i giochi dei bambini si riadattano alle regole degli adulti, i quali diventano i protagonisti di competizioni tra di loro e sfide con se stessi.
Per arrivare poi alla risoluzione del caso attraverso il gioco simbolico del “far finta” tra i due carabinieri, quando Meda incastra Rio durante l’epilogo narrativo. E l’uomo parla per ipotesi su come si sono svolti davvero i fatti.
L’esplorazione della genitorialità nelle sue complesse forme
Il tema principale intorno al quale ruota l’intero film riguarda il difficile rapporto genitori-figli.
Quante volte i genitori agiscono in buona fede solo perché convinti di star facendo il bene dei figli?
Quante volte però i genitori sbagliano incastrati nelle loro errate convinzioni?
Ai confini del male esplora la disperazione che affligge i genitori di figli scomparsi, per ragioni e modalità diverse, e che si manifesta in quattro sfumature di dolore:
- il dolore nero, quello che rende inermi e risucchia i coniugi Scola in un imbuto sempre più stretto dal quale si finisce rinchiusi in un flusso di struggimento senza via d’uscita.
- il dolore rosso, quello che grida vendetta e induce Nevena, madre di Irina a pretendere giustizia per sua figlia.
- il dolore blu metallizzato, quello che acceca la ragione e infilza schegge di rabbia e aggressività nell’animo di Fabio Meda, il carabiniere che ha perso il figlio anni prima.
- il dolore grigio, quello sordo che non si manifesta ma implode dentro i coniugi Rio. Un dolore che tocca le corde della severità genitoriale e che le fa vibrare così forte da stordire il senno.
LA RAGIONE VIENE MESSA A DURA PROVA
I genitori di Adele Scola sono ormai tanto afflitti dal dolore da non avere le forze per sperare in una conclusione positiva.
La figlia è scomparsa e pur di rassegnarsi a quanto è successo, perché comprendere come siano andati i fatti diventa sempre più complicato, i due coniugi preferiscono credere al mistico e scaricare una responsabilità il cui peso potrebbe continuare a non farli dormire bene la notte.
Per entrambi la colpa della sparizione della figlia è da addossare al mostro di Italianova, che dieci anni prima aveva ucciso indisturbato alcuni ragazzi nella stessa zona.
IL MOSTRO E’ DAVVERO RITORNATO?
A questa domanda può rispondere con cognizione di causa solo il comandante Rio. L’uomo confida al collega Meda che il figlio la sera della scomparsa era al rave per spacciare e che la storia della setta satanica e del mostro è solo una bugia.
Dieci anni fa le vittime del mostro erano spacciatori. Rio all’epoca si era fatto l’idea che il colpevole fosse in realtà una specie di giustiziere che onorava le anime dei morti di overdose.
Il comandante aveva individuato anche un indiziato ma, senza prove certe che lo incastrassero, l’arma dei carabinieri lo aveva fatto desistere dal continuare le indagini. Il colpevole secondo Rio era un poliziotto con precedenti per abuso di potere.
Una strana coincidenza aveva indotto Rio a credere che si trattasse proprio di questo poliziotto perché anche sua sorella era morta di overdose in quel periodo. E un mese dopo il ritrovamento del corpo, lo spacciatore era stato trovato a sua volta cadavere nel bosco.
Il gioco del contrasto tra i protagonisti Rio e Meda
Gli opposti sono i veri protagonisti di questo film. Tra nomi che evocano pensieri in contrasto e atteggiamenti che nascondono sotto una spessa coltre di azione la vera natura dei personaggi, Ai confini del male narra una storia le cui apparenze ingannano per davvero.
Agli antipodi si trovano anche gli ambienti fisici aperti e le mentalità ristrette, intrappolate in convinzioni ottuse e paure asfissianti.
Ma il primo contrasto evidente è la scelta dei nomi per i personaggi principali.
Il carabiniere comandante Giorgio Rio è un uomo integerrimo, granitico con lineamenti del viso sempre duri. Rimane impassibile sia durante la fase di ricerche del figlio, sia quando il ragazzo viene ritrovato.
Eppure, spesso si associa al nome Rio il carnevale, qualcosa che fa pensare subito al divertimento, alla spensieratezza e al piacere di godersi la vita col sorriso.
E invece Rio a dispetto del nome, si presenta come un uomo ligio al dovere che odia i rave e le feste a cui partecipa il figlio; un uomo che prende anche troppo sul serio il suo ruolo da comandante dei carabinieri.
LA CONTRADDIZIONE DEL CARABINIERE MEDA
Per contrasto, al collega Fabio Meda frega poco della sua professione. Viene allontanato dalle indagini per aver aggredito il giornalista Treanni, uomo un po’ troppo invadente che lo offende con una battuta di cattivo gusto.
Meda ha difficoltà a gestire la sua rabbia. Faccia da duro, umorismo tagliente e scatti spesso violenti caratterizzano la sua persona.
Al nome Meda vengono associati, invece, pacatezza, sicurezza e fermezza. Qualcosa di certo, presente, in grado di fornire riparo e assistenza.
Nel linguaggio marittimo Meda è il nome di segnali disposti in mare, in metallo o in muratura, impiegati come avviso ai naviganti in corrispondenza di punti pericolosi come scogli o altro. Servono come punti di riferimento per indicare, in acque ristrette, il tratto di mare navigabile con sicurezza.
Meda in mare fornisce aiuto, mentre il carabiniere nelle sue condizioni non è in grado né di aiutare il prossimo né tantomeno se stesso. La corrente furiosa lo trascina in un vortice di rabbia da cui si lascia corrodere dentro.
Fabio Meda annega nella disperazione. Chi o cosa riuscirà a salvarlo?
Tra Rio, uomo pacato e freddo, e Meda, furioso e rabbioso, l’ago della bilancia va a posizionarsi sull’unico aspetto che accomuna i due carabinieri: l’ossessione.
Il significato nascosto dietro alcune scelte stilistiche
A confondere ulteriormente le idee ci pensano anche alcuni simboli inseriti qua e là all’interno della narrazione.
La pellicola è ambientata in Italia, in una località misteriosa senza nome. La scelta stilistica di voler negare una dimensione geografica al film fa scendere sull’atmosfera un velo di mistero e cupezza.
Gli ambienti sono spogli, sconfinati, e prendono spunto dalla Louisiana di True Detective. Lo stampo americano lo ritroviamo anche nella scelta di avere due carabinieri, quanto più diversi tra di loro, ad indagare insieme su uno stesso caso.
I protagonisti di True Detective, gli investigatori Rustin Cohle e Martin Hart, collaborano su alcuni casi di omicidio.
I due formano una coppia male assortita che, però grazie all’accettazione dei difetti l’uno dell’altro e al rispetto reciproco, riuscirà a trovare il giusto equilibrio per risolvere il caso.
Altro motivo per cui l’ambientazione non ha un nome è dovuto alla scelta narrativa di voler dare alla pellicola una dimensione eterea. Nell’atto di ricreare l’atmosfera di Ai confini del male, location intangibili e sconosciute facilitano il richiamo alla serie HBO nella testa del pubblico.
I SIMBOLI NARRATIVI CHE DONANO SPESSORE AL FILM
All’interno del film troviamo altri due simboli molto importanti:
- il cane, presenza che apre e chiude la narrazione e che si presta a molteplici chiavi di lettura.
- il costante richiamo al numero tre.
Nello specifico: il cane è il primo filo conduttore che prende per mano lo spettatore e lo conduce fino ai titoli di coda. All’inizio viene rifiutato da Meda, che lo allontana in malo modo, poi lo adotta.
Il cane rappresenta sia il caotico mondo che popola la psiche di Meda sia l’anima del figlio che cerca di farlo riconciliare con se stesso. Appare ogni volta che l’uomo piange e si arrende al dolore che lo imprigiona.
Dopo un rifiuto iniziale che lo porta a scontrarsi col mondo, Meda capisce che l’unico modo per trovare un po’ di pace è quello di accettare il suo dolore, imparare a conviverci e integrarlo come parte di sé. Il cane rappresenta proprio questo dolore, dal rigetto iniziale all’accettazione finale.
Sarà sempre il cane nell’atto di difendere i suoi cuccioli a fornire la chiave per la risoluzione del caso. Simbolo di alleanza.
Inoltre, Fabio Meda ha un soprannome, un’etichetta che gli è stata cucita addosso dopo la morte della famiglia: “cane pazzo”.
A causa di una battuta di cattivo gusto da parte di un collega il giorno dopo i funerali della sua famiglia, Meda picchia selvaggiamente l’uomo. Questa la ragione per cui i giornali gli assegnano questo soprannome indelicato.
Il cane è parte integrante della sua anima, la guida in cui il suo spirito si identifica e che lo accompagna durante tutte le fasi più importanti della sua vita: dalla fase tumultuosa dell’elaborazione del lutto alla fase di ritrovata serenità.
IL NUMERO 3 E’ IL VERO PROTAGONISTA DEL FILM
Intorno al numero tre ruotano molti richiami nel film Ai confini del male:
- il giornalista Treanni
- la Madonna col tridente
- l’anello a tre punte della ragazza scomparsa, Adele Scola, che lascia una cicatrice a tre fori sul viso di Luca Rio, il ragazzo scomparso con lei la stessa notte del rave
- il marchio a fuoco a forma di tridente sui corpi dei ragazzi uccisi dieci anni prima
In questi cinque indizi è custodita la risoluzione dell’intero mistero che avvolge la narrazione. Una coincidenza che il richiamo al numero tre sia così evidente?
Il tre è un filo conduttore che collega i nodi nevralgici del caso e li espone in vetrina affinché il pubblico sia in grado di vederli e magari riuscire a risolvere il caso prima dell’epilogo finale.
Stanare il colpevole in questo gioco a nascondino viene facilitato dalla disseminazione qua e là di elementi narrativi simbolici. Il tre, inoltre, collega il presente ai delitti del passato.
Figura di spicco è il giornalista Ludovico Treanni. Dopo lo scontro iniziale con Meda, l’uomo diventa un suo alleato e spiega al carabiniere cos’era successo dieci anni prima.
“All’epoca si parlò di setta satanica. Questi affamavano le vittime e poi li abbuffavano di eroina. Li filmavano e inviavano le videocassette ai carabinieri che tennero nascosta tutta la faccenda”, le sue parole.
Treanni è un giornalista la cui etica e dovere deontologico non fanno parte della sua formazione professionale. Uno sciacallo che ruba oggetti dal luogo in cui furono ritrovati i cadaveri dieci anni prima per rivenderli online.
Nella piccola caverna in cui il giornalista raccoglie i suoi macabri reperti è custodita la statua di una Madonna col tridente.
Le frasi chiave del film
All’improvviso il figlio dei coniugi Rio riappare. Luca incolpa il padre e usa una pistola per minacciarlo, vuole ucciderlo, ma Meda si intromette e pronuncia queste parole: “perché dai la colpa a papà? Non sai cosa vuol dire. Sei padre tu? Non sei padre”.
Come a sottolineare che il ragazzo non sa cosa significa essere genitore e quindi ignora la difficoltà e il peso che comporta ricoprire questo ruolo. In questo modo esonera il collega da ogni responsabilità.
Le altre frasi che lanciano spunti di riflessione importanti vengono pronunciate da Rio, Luca e Meda.
"La soluzione più semplice non è sempre la più giusta"
Giorgio Rio
“Sono stanco di come vanno le cose, rispetto a come dovrebbero andare”
Luca Rio
"Un lavoro perso in partenza, perché all’inizio c’è sempre una vittima e alla fine in cambio che c’è? Solo un assassino”
Fabio Meda
Queste dichiarazioni non sono inserite così a caso, solo per contribuire a fare effetto. Ma sono inserite per accompagnare il dialogo alla narrazione visiva, ovvero le parole con le immagini e le azioni.
Sono in grado di fornire indizi molto importanti.
Un’intervista al regista del film su Rolling Stone
Vincenzo Alfieri, regista di Ai confini del male in onda su Sky, racconta il suo lavoro a Rolling Stone.
La trama del film è estrapolata dal libro Il Confine di Giorgio Glaviano. Il regista spiega la decisione per il suo thriller di costruire Meda e Rio pensandoli come un unico personaggio che poi subisce una frattura e si scompone in due uomini differenti.
“L’uno è il riflesso dell’altro. Ed è quello che ho cercato di portare anche nelle location, nel lago, nell’acqua, nei vetri e negli specchi”, spiega Vincenzo Alfieri.
Meda e Rio sono due facce di una stessa medaglia. Il regista nel corso dell’intervista spiega anche l’idea alla base di questa narrazione: mettere in luce il ruolo del padre nelle sue diverse sfaccettature.
IL GIOCO DEL CONFINE
I genitori non sono perfetti e non sempre agiscono nell’interesse e nel benessere dei figli. E tali imperfezioni possono condurre a conseguenze irreparabili.
Ma alla resa dei conti anche la mela non cade lontana dall’albero. I figli sono a loro volta imperfetti, spesso in rotta di collisione con i propri genitori.
Il segreto per una convivenza pacifica è proprio quello di rimanere al confine, dove i genitori guidano i figli senza invadere il loro spazio vitale e i figli si fermano sulla soglia della legalità per non ferire o far arrabbiare i propri genitori.
E forse il concetto di rimanere al confine espresso dal regista in questo film significa proprio questo: individuare una zona franca in cui il rispetto tra le due categorie conduca a una tacita accettazione gli uni degli altri.
Nicoletta Apolito
Storyteller Specialist
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