Criminologia: la vicenda della piccola Elena Dal Pozzo uccisa, a Catania, da Martina Patti.

Martina Patti ha confessato davanti ai carabinieri di Catania e alla Procura della Repubblica l’omicidio della figlioletta Elena Del Pozzo, di neppure 5 anni.

“L’ho uccisa io Elena”, ha dichiarato, raccontano gli investigatori. La bambina è stata ammazzata con una serie di coltellate al collo e alla schiena

La madre, che ha 23 anni, ha poi preso il corpicino di Elena. Lo ha messo in dei sacchi neri e lo ha seppellito nel terreno a qualche centinaio di metri da casa.

Martina Patti ha così ammesso le sue colpe. Dice di avere agito da sola, versione confermata dagli inquirenti che parlano di un “orrendo crimine commesso in maniera solitaria” ma che non hanno ancora chiuso le indagini.

MOTIVO DELL’OMICIDIO: LA GELOSIA?

Quale il motivo dell’omicidio? Si è parlato di gelosia. Vi saranno comunque gli sviluppi, le ricerche sul piano psichiatrico e medico-legale a dare elementi utili per comprendere cosa è accado. E perché.

Gli investigatori, già un paio di giorni dopo l’omicidio della piccola Elena, hanno parlato di un’ipotesi di movente: la gelosia.

La gelosia, Martina Patti l’avrebbe provata nei confronti dell’attuale convivente dell’ex compagno Alessandro Del Pozzo, 24 anni. Una gelosia per l’affetto che la piccola Elena mostrava nei confronti della nuova compagna del papà.

“Non tollerava che vi si affezionasse anche la propria figlia” dicono gli inquirenti. Le indagini hanno portato alla luce un “triste quadro familiare”.

Dietro una gestione “apparentemente serena” della bambina, c’erano tensioni e liti.

Tutto questo è emerso ed è stato trattato attraverso la narrazione dei media che si sono occupati del caso.

L’omicidio di Elena. Una strana storia?

La madre Martina Patti, 23 anni, chiede aiuto ai carabinieri perché sua figlia Elena era scomparsa, a Catania, sequestrata da tre uomini mascherati e uno armato di pistola.

Nessun testimone, oltre a lei, dell’episodio. Non ha chiesto subito aiuto, telefonando al 112, ma prima è andata a casa e poi con i famigliari dai carabinieri a presentare la denuncia.

La bambina, Elena, è stata prelevata intorno alle ore 13 dall’asilo dalla madre Martina.

La signora ha riferito del rapimento intorno alle 15.30, orario in cui allerta l’ex convivente prima al telefono. Poi Martina si è recata dai genitori e con questi ultimi è andata in caserma e ha fatto la denuncia.

Secondo il racconto di Martina Patti, il rapimento della figlia Elena sarebbe stato “una conseguenza del comportamento dell’ex compagno, per non aver ascoltato precedenti messaggi minatori fattigli recapitare presso la propria abitazione”.

Quei messaggi, dice la donna agli investigatori, sarebbero stati recapitati all’ex compagno Alessandro Del Pozzo “in ragione del tentativo posto in essere di individuare il reale complice di una rapina ai danni di una gioielleria di Catania al posto del quale venne arrestato” il 15 ottobre del 2020 e “successivamente assolto nel settembre 2021 per non aver commesso il fatto“.

Ecco cosa racconta ai giornalisti la zia della bimba: “La madre disse che quelle persone incappucciate avevano fatto riferimento al biglietto dicendo Non ti è bastato il biglietto? Digli a tuo marito che questa è l’ultima cosa che fa: a sua figlia la  trova morta“.

Siamo così di fronte, con il racconto di Martina Patti, a una storia di bugie e di ricerca di aiuto da parte della madre della piccola Elena Del Pozzo.

Proviamo a ricostruire gli elementi importanti della vicenda. E a fare un riflessione dal punto di vista della Criminologia e della Psicologia Investigativa.

Elena Dal Pozzo - Catania - Martina Patti - figlicidio
Elena Dal Pozzo, la bimba uccisa a neppure cinque anni

L’accusa contro Martina Patti

Secondo la Procura della Repubblica di Catania, la madre ha premeditato l’omicidio della figlia Elena Del Pozzo, di quasi cinque anni.

Alla donna viene contestato l’omicidio volontario pluriaggravato e l’occultamento di cadavere. A questo si aggiunge il reato di false informazioni al pubblico ministero per aver mentito sulla dinamica, raccontando che la figlia era stata rapita da un commando di uomini incappucciati.

I legali della madre di Elena

È una “donna distrutta e molto provata che ha fatto qualcosa che neppure lei pensava di poter fare”, agendo come se “qualcuno si fosse impadronito” di lei, dimostrandosi “tutt’altro che fredda e calcolatrice“. Questa la dichiarazione dell’avvocato Gabriele Celesti, che difende Martina Patti.

Il legale della donna, poi, ha anticipato la sua strategia: “Farò incontrare la mia assistita con uno psichiatra di fama per verificare le sue condizioni e dopo decideremo sulla perizia“.

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Madri e padri che uccidono

L’uccisione del proprio figlio da parte di un genitore (il cosiddetto figlicidio) è uno dei delitti che suscita orrore nell’opinione pubblica, perché appare disumano e ingiustificabile. Non è comprensibile dalla mente umana.

Statisticamente madri e padri si equivalgono per numero di uccisioni. Una madre che uccide il figlio desta, tuttavia, molta più attenzione.

Inoltre la madre uccide di solito bambini piccoli, anche neonati. Il padre uccide bambini di età più avanzata. Inoltre, come vediamo nelle cronache il padre spesso compie una strage familiare coinvolgendo più membri della famiglia; e altre volte si uccide dopo aver tolto la vita ai famigliari.

Figlicidio e malattia mentale

Studi accreditati indicano che la presenza di una malattia mentale nelle madri figlicide rappresenta soltanto un terzo dei casi.

Si tratta di solito di donne con disturbi depressivi, disturbi della personalità di tipo borderline, donne con immaturità affettiva e relazionale.

Sono donne che si trovano in condizioni tali da non essere in grado di gestire una nascita, un figlio, un ruolo materno. Voglio poi sottolineare, che la cosiddetta depressione post-partum è una delle cause di uccisione di un bambino da parte di una donna.

Perché le madri uccidono?

Capire come mai una madre uccide i propri figli è molto difficile. Sono necessarie molte e molte informazioni anamnestiche, socio-culturali, di contesto, familiari per poter comprendere. Occorre, poi, conoscere la persona che ha commesso l’omicidio di un figlio, come nel caso della madre della piccola Elena Del Pozzo, a Catania.

È un crimine con due vittime: il figlio ma anche la madre omicida.

Il figlicidio spesso è un crimine che trova le cause nell’assenza di solidi legami affettivi tra la donna omicida e la rete parentale. Spesso sono presenti vissuti di conflittualità già durante l’infanzia, disturbi della personalità, rifiuto della maternità, vissuti depressivi poco manifesti.

Tra i moventi compaiono certamente patologie psichiatriche, sindrome di Medea, maltrattamenti o abusi.

Giocano un ruolo anche la solitudine, l’isolamento, la mancanza di supporto, l’incapacità di chiedere aiuto, la carenza di competenze relazionali ed emotive.

Spesso  questi drammi sono il tragico epilogo di conflittualità nei rapporti tra ex coniugi, dove i figli vengono usati e strumentalizzati per ferire l’altro.

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Aspetti psicologi e psicopatologici del parto e della maternità

Molte sono le cause e le concause di un omicidio da parte di una madre, come Martina Patti, che toglie la vita a un figlio.

Proviamo, allora, a fare una piccola esposizione delle principali problematiche psicologiche e psicopatologiche legate alla gravidanza, al parto e al divenire madre.

MATERNITY O BABY BLUES

Essendo causato da variazioni ormonali non è considerato un vero e proprio disturbo.

Riguarda i giorni che seguono il parto e solitamente sparisce da solo nel giro di pochi giorni. Colpisce quasi tutte la madri, i sintomi possono durare fino a tre settimane.

È caratterizzato da frequenti sbalzi di umore, con tendenza al pianto, tristezza, ansia, mancanza di concentrazione. VI è senso di inadeguatezza nei confronti del compito materno che la donna si trova a dover affrontare

È causato dai cambiamenti ormonali successivi al parto, dallo stress psicofisico legato al travaglio e al parto. Ci sono poi l’ansia legata all’aumento delle responsabilità, l’insorgenza di imprevisti o contrasti con i famigliari, i parenti e così via.

È importante condividere la propria esperienza con altre mamme; e pianificare una buona divisione dei compiti con il proprio compagno.

Il maternity blues avrebbe un’incidenza statistica superiore al 70%.

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Una foto di scena dal film “La figlia oscura”

DEPRESSIONE POST-PARTUM

La depressione post-partum colpisce circa il 10-25% delle madri. Di solito gli episodi depressivi durano dai tre ai nove mesi; e non vanno in alcun modo trascurati. Avviene dal terzo mese fino al primo anno di età del bambino.

Una depressione post-partum tende a cronicizzare, se trascurata. Può avere effetti negativi su tutta la famiglia; e mina il corretto sviluppo della relazione madre-bambino o bambina.

Le donne con depressione post-partum hanno di solito un vissuto caratterizzato da paura e insicurezza. Non riescono a gioire dell’essere madri. Mantengono un distacco fisico dal bambino, hanno paura di toccarlo.

Hanno paura di non essere una “buona” madre; a volte riportano pensieri  anche ossessivi di poter far del male al figlio.

I sintomi principali sono affaticamento, esaurimento, disperazione, inappetenza, insonnia o sonno eccessivo, confusione, crisi di pianto, disinteresse per il bambino, paura di far del male al bambino o a se stessa, improvvisi cambiamenti d’umore.

PSICOSI PUERPERALI

Le psicosi puerperali sono piuttosto rare, a dire il vero; e calcolate con una incidenza da 1 su 1.000 a 1 su 2.000.

Sono caratterizzate da sintomi psicotici, da uno stato confusionale o confuso-onirico, con tonalità ansiosa, a cui possono associarsi aspetti melanconici, maniacali, catatonici.

Compaiono alcune ore o alcuni giorni dopo il parto, e possono protrarsi per un tempo anche molto lungo. Sono presenti contenuti deliranti rispetto l’essere madre, con negazione del parto e del figlio, timori di fare del male al figlio o di ferimenti.

Legate a forme di grave depressione (ma non necessariamente post partum) sono le madri che desiderano uccidersi e uccidono il figlio (suicidio allargato).

Le madri che uccidono il figlio (o la figlia) lo fanno perché pensano di salvarlo (figlicidio altruistico), per non farlo soffrire: omicidio pietatis causa, eutanasia o omicidio compassionevole (o pseudo compassionevole), quando motivato dal desiderio di “liberarsi del fardello” del figlio malato.

La depressione psicotica è fra le patologie che più spesso hanno bisogno di particolare vigilanza, specie in tutti i casi in cui una donna con figli sia diagnosticata depressa con ideazione suicidiaria.

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BATTERING MOTHERS

Sono madri che maltrattano i propri figli; e che sono state a loro volta maltrattate.

È questo il caso dell’identificazione con l’aggressore. Sono in genere le “battering mothers”, madri che uccidono i propri figli con violenza inaudita.

Questo fenomeno è stato ampiamente trattato dal professor Gian Carlo Nivoli, della Clinica Psichiatrica dell’ Università di Sassari, nel suo libro Medea tra noi.

Questa tipologia indica le madri abusatrici che ammazzano i propri figli con violenza inaudita. Li torturano spegnendo le sigarette sulla pelle, afferrano coltelli e arnesi appuntiti per punzecchiarli fino a farli piangere.

Proprio un urlo più forte lanciato dal bambino può far scattare la fase finale: lo uccidono sferrando colpi su tutto il corpo.

COMPLESSO DI MEDEA: LA VENDETTA CONTRO IL PARTNER

Il nome di questa sindrome deriva dalla tragedia greca di Euripide, che racconta di Medea e dell’omicidio dei figli.

Sono donne che, poste in uno stato di forte stress emotivo, per punire il proprio marito o compagno uccidono i figli, in modo da vendicarsi dei torti subiti, reali o presunti che siano.

È un modo per infliggere al compagno un dolore fortissimo: il bambino diventa uno strumento di rivalsa sul coniuge, anche perché la madre lo vede come il frutto del loro amore.

Nel momento dell’uccisione del figlio, la madre raggiunge l’apice del delirio di onnipotenza (tipico delle crisi psicotiche). si evince anche un desiderio di possesso totale dei propri figli, estromettendo il padre.

La madre si autonomina giudice di vita e di morte.  Queste madri vendicative mostrano in genere disturbi di personalità con aspetti aggressivi, comportamenti impulsivi, tendenze suicidarie e frequenti ricoveri in ambienti psichiatrici.

Le loro relazioni affettive sono spesso ostili, caotiche, conflittuali.

L’allontanamento o il reale abbandono  del partner è l’innesco che fa esplodere gli equilibri precari che reggono l’identità della madre  che va a frammentarsi.

MADRI CHE UCCIDONO FIGLI INDESIDERATI

Si tratta di gravidanze non volute o successive a eventi traumatici, ad esempio un figlio frutto di una violenza sessuale. Il figlio non voluto ricorda loro momenti dolorosi della propria vita.

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MADRI CHE NEGANO LA GRAVIDANZA

I nove mesi di gestazione di un figlio concepito avvengono normalmente. Al termine della gravidanza, tuttavia, la madre decide di partorire tramite una rapida espulsione del feto, ad esempio in un bagno.

Solitamente sono madri molto giovani, abbandonate dal compagno che di solito è più adulto.

Queste madri hanno dei legami molto forti con la famiglia d’origine; tendono a negare in modo isterico la gravidanza, tant’è che si comportano come se non fossero incinte.

Nessuno si accorge della gravidanza. Partoriscono da sole. E in seguito gettano il neonato nella spazzatura o altri luoghi. Alcune abbandonano il neonato in luoghi dove sperano che qualcuno lo possa trovare; e salvargli così la vita.

MADRI CHE UCCIDONO UN FIGLIO PENSANDO DI SALVARLO

Si tratta di “omicidio pietatis causa” o “figlicidio altruistico”. Solitamente queste madri hanno problemi di tipo paranoideo persecutorio.

Vedono il mondo come maligno e crudele. L’unico modo per sfuggire è la morte, dove porteranno con loro anche i figli.

MADRI CHE UCCIDONO UN FIGLIO PER NON FARLO SOFFRIRE

Anche detto omicidio compassionevole, da non confondere con l’omicidio pseudo- compassionevole” nel quale, in realtà, il bambino è vissuto come un fardello.

In genere, il figlio soffre di una malattia grave e reale che lo costringe a letto con dei forti dolori.

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Martina Patti e il Codice Penale

Martina Patti, la madre che a Catania ha ucciso la figlioletta Elena, è accusata di omicidio premeditato e pluriaggravato e di occultamento di cadavere.

Giuridicamente non si può parlare di figlicidio.

Il termine, infatti, pur indicando l’uccisione del figlio da parte di uno dei due genitori, non è contemplato nel Codice Penale italiano che prende in considerazione solo l’infanticidio e l’omicidio.

 Secondo l’articolo 578 del Codice Penale, l’infanticidio è così rappresentato.

“La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da 4 a 12 anni“.

Prosegue il Codice Penale: “A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si applica la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi”.

Come notiamo, l’infanticidio è un crimine esclusivamente materno, solo la madre può compiere questo delitto; a differenza del figlicidio che è un crimine genitoriale e può essere compiuto sia dal padre che dalla madre.

L’assassinio del proprio figlio (anche quello commesso dal padre quindi), in
tutti i casi di età successiva alla immediatezza della nascita, prevede la pena
dell’ergastolo.

Vediamo la definizione di omicidio, secondo l’articolo 575 del Codice Penale: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”. Seguito dall’articolo 577 sulle circostanze aggravanti.

Quanto all’ergastolo, il Codice Penale ci dice che si applica la pena dell’ergastolo se il fatto preveduto dall’articolo 575 è commesso:

  • contro l’ascendente o il discendente;
  • col mezzo di sostanze venefiche, ovvero con un altro mezzo insidioso;
  • con premeditazione;
  • con concorso di talune circostanze indicate da altri articoli del Codice Penale

La pena è della reclusione da ventiquattro a trenta anni, se l’omicidio è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo o contro un affine in linea retta.

Elena Dal Pozzo - Catania - Martina Patti - figlicidio
Elena Dal Pozzo, la bimba uccisa a neppure cinque anni

L’uccisione di Elena: alcune riflessioni

Le riflessioni che svolgo sono legate a quanto emerso dai media. Una valutazione sulla figura della madre che ha ucciso e sul movente, richiede un’analisi della donna. E l’avere tutti gli elementi a disposizione che sono in mano agli investigatori.

È quindi opportuno evitare giudizi affrettati. E riflettere sull’accaduto senza trarre conclusioni che possono portare fuori strada.

Dalla prima ricostruzione, emerge che Martina Patti sarebbe andata a prendere la figlia all’asilo per poi ucciderla in casa con un coltello da cucina (almeno 3 o 4 le coltellate).

Dopodiché, ha portato il corpo in un vicino terreno di campagna, avvolto in sacchetti di plastica, tentando di coprirlo con terra e cenere lavica.

L’ispezione medico legale ha verificato che sul corpo della bambina sono state riscontrate molteplici ferite da armi da punta e taglio alla regione cervicale e intrascapolare.

Elena è stata uccisa con un coltello da cucina, che le ha procurato ferite mortali a collo, orecchio e sulla parte superiore della schiena.

Sembra sia stata colpita posteriormente, più e più volte. Da capire con l’autopsia la dinamica dell’aggressione.

Forse la madre non voleva vederla negli occhi? Sicuramente l’over-killing (l’infierire quindi sulla vittima) è sempre un indicatore di un forte legame affettivo con la vittima; e sembra che l’over-killing sia stato presente nelle modalità di usare il coltello da parte della madre.

caso sutter bozano - movente - articolo Maurizio Corte - Agenzia Corte&Media - blog ilbiondino.org - photo Dan Meyers

RIFLESSIONI SUL MOVENTE DELL’OMICIDIO DI ELENA

Martina Patti ha detto di avere agito senza capire quello che stava facendo. Spinta da chissà quale forza interna; o esterna che l’ha condotta a uccidere.

Sul movente sono ancora pochi i punti fermi, in un quadro di evidente fragilità psichica.

C’erano state gelosie e violenze, hanno spiegato gli investigatori. E secondo chi fa le indagini, “una delle possibili ragioni che hanno portato Martina Patti a compiere il gesto, può essere proprio la gelosia, non solo della nuova compagna dell’ex convivente ma anche del possibile affezionarsi della figlia nei confronti della donna”.

Il movente spesso è da ricercarsi nella storia personale dell’autrice, nella vita di tutti i giorni, nel suo essere madre a 18 anni, nella relazione confluttuale con il padre della figlia.

In questo volteggiare di pensieri, anche ossessivi e d’inadeguatezza, si sfuma il movente o meglio i moventi. Spesso ogni colpo rimanda a un vissuto doloroso da parte della madre che uccide, come abbiamo visto dalle diverse tipologie di donne coinvolge nell’omicidio di un figlio.

Il movente paradossale è l’amore totale che nutriva per la figlia, così che forse non voleva fosse di nessun’altra. Martina non poteva “competere” con un’altra donna che, pensava, le avrebbe rubato il posto di madre nel cuore di sua figlia.

Forse Martina non aveva altro, oltre alla figlia, a cui legarsi nella sua giovane vita di donna di 23 anni.

Sarebbe utile capire anche se Martina sia stata seguita dagli assistenti sociali; o se fosse iniziata una pratica di affido della bambina al padre.

STORIA FAMILIARE

Martina Patti, 23 anni, e il giovane ex compagno Alessandro Del Pozzo, 24 anni, da tempo erano separati e vivevano in case diverse. Entrambi hanno nuove relazioni affettive.  

Avevano avuto la figlia Elena molto giovani. Martina Patti era una madre giovanissima. Non sappiamo se Elena sia stata una bambina voluta; oppure una nascita non programmata.

Di fatto i ragazzi giovanissimi si sposano e si ritrovano genitori. Un passaggio brusco da adolescenza a genitore. Martina diventa mamma a 18 anni. Forse era da sola, senza amici. Le cronache non ne danno notizia; così come non sono emersi dettagli sulla sua famiglia d’origine.

Martina viene descritta come “inappagata”, “dura” verso l’ex marito che aveva avuto qualche precedente pernale, chiuso poi con un’assoluzione.

La suocera riferisce che Martina spesso picchiava Elena, che dovevano “togliergliela dalle mani”.

Dopo la separazione di Martina Patti dal marito Alessandro, la suocera commenta che da allora Martina decise di centellinare le visite della nipote Elena alla nonna; e di limitare al massimo gli incontri tra padre e figlia.

Tant’è che decideva Martina quando portare la bambina dai nonni o dal padre.

La nonna paterna dice che “Martina era ossessionata da mio figlio, ogni volta che si lasciavano lo minacciava”.

Quello che è emerso dalle indagini, è un quadro di una coppia separata che cercava di gestire la figlia Elena malgrado la conflittualità. 

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Cosa succede dopo il delitto

Dopo aver commesso il delitto, il comportamento della madre omicida è diverso a seconda dei casi. Non esiste una tipologia di comportamento o una classificazione.

Vari sono i fattori che interagiscono e influenzano il modo di fare dell’omicida: la presenza, la tipologia o la gravità di una malattia mentale, la relazione con la famiglia di origine, i rapporti con il partner, la negazione del fatto, la confessione, l’ideazione suicidaria.

Martina Patti, 23 anni, alla fine ha ammesso l’assassinio della figlia di 5 anni e ha accompagnato i carabinieri dove aveva nascosto il corpo. 

Martina, dopo il delitto, chiede innanzi tutto aiuto ai carabinieri, inventandosi un rapimento mai avvenuto. E dopo il delitto chiama la suocera.

Come mai non chiama la sua famiglia? Le cronache non parlano di ciò. Martina comunica alla famiglia dell’ex marito quanto avvenuto, con una bugia certo. Sembra chiami anche il padre della bambina, al quale comunica il rapimento e gli attribuisce la colpa di ciò ma anche che la bambina potrebbe essere morta.

Il profilo della madre che uccide

L’età media individuata della madre figlicida va all’incirca dai 25 ai 30 anni. La figura di Martina Patti, mamma di Elena, rientra quindi a pieno titolo, avendo 24 anni, in questa fascia.

La maggioranza risulta essere sposata o con una relazione al momento della morte del figlio. Di solito si tratta di donne che vivono una situazione socioeconomica e relazionale precaria; e spesso con una storia di abusi e maltrattamenti alle spalle.

In Italia crescono in maniera esponenziale i figlicidi o, per meglio dire, i bambinicidi.

Secondo l’ultimo rapporto Eures, in Italia tra il 2000 e il 2014, sono stati 379 i figli uccisi da un genitore  – padre o madre – naturale o acquisito.

Il fenomeno dell’infanticidio è abbastanza contenuto in quanto, secondo i dati Istat, dal 2006 al 2017, in Italia vi sono stati 34 neonati uccisi dalle loro madri.

Per quanto concerne il figlicidio da parte di un genitore, invece, il numero è di molto superiore. E in tale numero la percentuale del figlicidio materno è di circa il 70% .

Dal 2000 al 2017, nel nostro Paese, sono 447 bambini sono morti per mano dei genitori o familiari. Nel 2018 sono stati 33 le uccisioni di bambini; e nel 2019, 19. Un totale di 499 bambini uccisi.

--- Martina Patti - Elena Dal Pozzo - Catania - omicidio - figlicidio - Photo 150993067 Marijus Auruskevicius Dreamstime

Il numero oscuro dei bambinicidi

In criminologia si studiano anche i figlicidi mascherati da eventi accidentali che quindi non sono rilevati nei dati ufficiali.

Leggiamo a volte di morti accidentali, di disattenzione dei genitori, di soffocamenti durante il sonno e casi simili.

In verità, la cronaca talvolta parla di episodi del tutto casuali, di “disgrazie”; che tuttavia possono nascondere un progetto omicidiario.

Vi sono madri che prodigano cure affettuose al figlio, ma in realtà lo stanno subdolamente uccidendo.

Meglio nota come sindrome di Munchausen per procura, la sindrome prende il nome dal barone di Münchausen, un personaggio letterario divenuto famoso per i suoi inverosimili racconti.

La sua caratteristica comportamentale principale è quella mostrata da chi soffre di questo disturbo: dire bugie ripetute.

La madre dispensa cure e affetto, ma solo in apparenza. In realtà fa del male al bambino, arrivando anche a provocarne la morte, per attirare su di se l’attenzione dei medici e dei massmedia.

Somministrano abitualmente dei farmaci o delle sostanze dannose ai figli, causando veri e propri avvelenamenti.

Viste dall’esterno sono delle madri assai premurose che portano di continuo i bambini dal medico per farli curare.

È molto difficile riconoscere questo tipo di madri. Gli stessi medici hanno delle difficoltà, perché è quasi impossibile risalire al motivo del malessere del bambino.

La maggior parte di queste madri sono infermiere. O hanno avuto a che fare in qualche modo con la medicina. Sanno come somministrare le sostanze, facendo sì che nessuno si accorga delle loro vere intenzioni.

A volte accadono degli “incidenti”. E molte morti vengono spiegate con la Sids (sudden infant death sindrome) ovvero la Sindrome da Morte Infantile Improvvisa.

Un bambino in apparenza sano e normale, soffre in realtà di una piccola anomalia del sistema di regolazione dei ritmi cardiaci, respiratori o generali del proprio organismo.

Questa situazione può indurre la Sids, quindi la morte del bambino. Ma a volte non si tratta di Sids, questo è uno dei tanti modi per uccidere un bambino e farlo passare per un incidente.

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La fragilità genitoriale

Nella nostra società è il figlio che rimanda un’immagine “buona “, di famiglia “giusta”, sana. Il figlio è uno “status simbol” e un indicatore di stabilità e sicurezza, quasi un feticcio.

Nel caso di Catania, c’è da chiedersi; Martina e Alessandro, non ancora ventenni al momento della nascita di Elena, erano pronti a diventare genitori? L’avevano scelto?

Erano preparati ad accogliere un figlio? Avevano vissuto ed elaborato a 18 anni un immaginario genitoriale? Oppure loro stessi erano ancora figli tardo adolescenti?

Martina Patti, mamma di Elena, non sembra sia riuscita a vivere le normali tappe evolutive di crescita dall’infanzia all’adolescenza fino alla cosiddetta maturità. Si è trovata genitore inconsapevole; in una rete di rapporti dove la figlia Elena rappresentava l’unica sua certezza.

Sicuramente il figlicidio materno è un evento multifattoriale, cioè è determinato da diverse concause.

Voglio sottolineare che di rado è un evento improvviso, un fulmine a ciel sereno. Di solito è preceduto da situazioni di allarme, d’agitazione, litigi ricorrenti che dovrebbero richiamare l’attenzione soprattutto dei componenti della rete familiare.

Spesso i bambini arrivano a nascere in situazioni di fragilità delle coppie, di fragilità dei ragazzi o dei cosiddetti genitori.

BAMBINI PARAFULMINI DEL DISAGIO

Bambine e bambini si trovano a diventare i parafulmini di situazioni di disagio, di conflittualità. Diventano, insomma, il premio o la punizione per un genitore; oppure diventano oggetti di ricatto e punizione per il genitore.

Spesso i bambini vengono eliminati per punire l’altro. Perché l’altro, che mi ha lasciato, non possa godere del figlio.

Gli affidi condivisi diventano così terreno di ricatti indicibili, giocati sulla pelle e sulla vita dei bambini.

 Un aspetto importante della vicenda di Martina Patti, e della figlioletta Elena, è come mai questa famiglia giovane, questa donna “dura” non sia stata aiutata.

Non si è capito che stava gestendo con rabbia l’abbandono e la perdita del marito? La suocera sembra si sia accorta del disagio della nuora Martina, quando dichiara che la mamma di Elena Del Pozzo era ossessionata. Tuttavia non se ne è tenuto in debito conto.

Le famiglie, per di più se in separazioni conflittuali e in giovane età, mostrano sempre più i segni di una sofferenza psichica, sociale ed educativa. Il problema è che questa sofferenza non viene ascoltata; e affrontata.

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Donne e madri fragili. Errato parlare di “madri degeneri”

Martina Patti forse non ha accettato il suo ruolo di genitore, troppo giovane lei stessa, troppe responsabilità da sopportare.

Poi la separazione è una sconfitta come donna. È la perdita dell’identità sociale di donna e madre soprattutto per una ragazza troppo giovane.

Perdere la “loro” famiglia di nuova costituzione per i ragazzi di oggi è un trauma. È una perdita identitaria che destabilizza, mina alle radici di chi sei e cosa fai.

I commenti si sprecano contro questa giovane donna, definita “madre degenere” e per la quale si deve applicare il massimo della pena possibile. Se non di più.

Si chiede, nel solito circo dei social media, di punire Martina Patti in modo esemplare. Punirla di che? Dell’omicidio di sua figlia? Del dolore che si è inflitta?

Punirla perché non ce l’ha fatta a definirsi come donna e madre single? Punirla perché malata? Perché non capace d’intendere e volere al momento del fatto?

Agli occhi dell’opinione pubblica, una madre va punita di più, perché da lei ci si aspetta un amore incondizionato. Tanto da considerarla impazzita se uccide.

Definire una madre che uccide come “madre degenere”, infine, non ha fondamento alcuno.

Non è vero che è innato essere e fare la madre per le donne; o sentirsi e accettarsi come madre.

Si impara a essere madre (o padre) con fatica e dolore, nella quotidianità con il figlio e con l’altro genitore. Si impara ricordando le cure materne ricevute o mancate.

A volte non ce la si fa ad imparare: manca una parte di sé, manca lo spazio interno e mentale di rappresentarsi e accogliersi come donna e come madre.

A volte si arriva – come nel caso di Martina Patti, a Catania, e della piccola Elena Del Pozzo – a questi dolori estremi. Sono dolori estremi per tutti. Lasciamo, allora, che il silenzio protegga e aiuti tutti noi a elaborare questi lutti.

Laura Baccaro
www.laurabaccaro.it

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Elena Dal Pozzo: il caso sui media. Il programma Rai Estate in Diretta

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