Docu-serie sul caso di Yara Gambirasio e Massimo Bossetti. Una narrazione appiattita sulla pubblica accusa.
“Sulle tracce dell’assassino. Il caso Yara” è una nuova docuserie – la terza dopo quella della Bbc e il film su Netflix – disponibile sul canale Nove e su Sky dedicata alla vicenda di Yara Gambirasio e Massimo Bossetti.
Un’altra serie thriller, dal taglio documentaristico, che è stata anticipata dal sito del Corriere della Sera. Il giornale online ha dato in esclusiva anche il trailer della docuserie.
Già dalla visione del trailer c’era stato l’inquietante sospetto di avere un’altra narrazione fotocopiata dalla posizione della pubblica accusa.
La visione della docu-serie, nelle sue due puntate di 110 minuti ciascuna, ha confermato il sospetto: non vi è contraddittorio, non vi è dibattito, non vi è inchiesta giornalistica.
Sulle tracce dell’assassino parte con la ricostruzione – pulita, “oggettiva” e “scientifica” – di cosa è accaduto. Nessun dubbio sulla ricostruzione dei fatti; nessun accenno ai dubbi sull’uscita (o meno) di Yara Gambirasio dalla palestra, quella sera di novembre del 2010.
Anziché fare serialità documentaristica come inchiesta scomoda, abbiamo davanti davanti un’altra genuflessione alle tesi dei magistrati inquirenti, confermate poi nei vari gradi di giudizio in tribunale.
Se un documentario, una ricostruzione storica, un’inchiesta debbono poggiare soltanto sulle voci degli inquirenti e sulle sentenze dei tribunali – per quanto sorregge da dati considerati scientifici – allora non abbiamo documentazione, non abbiamo storia, non abbiamo inchiesta.
L’inchiesta è scomoda, oppure è solo uno spot comunicativo per conto di qualcuno.
MASSIMO BOSSETTI? COLPEVOLE SENZA DUBBI
Sia chiaro, onde evitare equivoci. Non voglio sostenere – perché non ne ho gli elementi – che Massimo Giuseppe Bossetti sia innocente.
Massimo Bossetti, secondo la giustizia italiana è colpevole. E tale lo consideriamo.
Il problema è un altro: la mancanza di scientificità e di imparzialità da parte di chi fa cinema e serialità televisiva di tipo documentaristico.
Il primo episodio della docu-serie sulla ragazzina di Brembate di Sopra (Bergamo) ricostruisce i fatti sulla base di ciò che dicono gli inquirenti e i loro consulenti.
Non vi è alcuna voce per la difesa. Nessun contraddittorio. Nessun dibattito su ciò che la pubblica accusa (stavolta la Pm Letizia Ruggeri non c’era fisicamente) afferma.
Tutto è oggettivo, scientifico, autorevole. Lo vediamo
- dal tono pacato degli intervistati,
- dall’ambientazione del racconto e delle interviste,
- dagli abiti che indossano investigatori e consulenti
IL RUOLO DEI GIORNALISTI: SOGGETTI DA SALOTTO
I giornalisti cosa fanno? Dicono qualcosa di scomodo? Fanno i cani da guardia delle versioni ufficiali? oppure sono soggetti da salotto, simpatici e innocui?
I giornalisti svolgono tre ruoli, senza disturbare:
- raccontano, pure loro, i dati “oggettivi” e “scientifici” della pubblica accusa (la Pm Letizia Ruggeri non c’è, ma si nota lo stesso nel racconto);
- avvalorano quanto gli inquirenti affermano e rinforzano la voce dell’ufficialità;
- smentiscono, prima ancora che siano messi in chiaro, gli argomenti degli avvocati di Massimo Bossetti
Tutta la narrazione del primo episodio diSulle tracce dell’assassino. Il caso Yara è una smentita anticipata, una confutazione preventiva, una delegittimazione logica di quanto sostiene la difesa del “muratore di Mapello”.
La dimostrazione? Il fatto che Massimo Bossetti – grazie all’impianto narrativo – non viene mai nominato. Del resto, si dirà, siamo in una fase della storia in cui lui ancora non c’era; non era stato scoperto.
La ragione è un’altra: nella prima parte della docu-serie su Yara Gambirasio si mettono le fondamenta che vogliono portare lo spettatore, nella seconda parte, a diventare colpevolista (se è incerto). Oppure ad avere dubbi (se è innocentista) sulle tesi dei difensori di Bossetti.
Yara Gambirasio e Massimo Bossetti, il diritto al dibattito sulla verità
Un documentario – come una qualsiasi inchiesta giornalistica – non si costruisce sulle sole tesi della pubblica accusa e sulle sentenze delle Corti d’Assise.
È come se uno storico scrivesse i suoi saggi sulla base dei documenti ufficiali dei governi, dei poteri e delle élite che comandano una certa società.
Avremmo una narrazione parziale, con un’angolatura funzionale a quelle organizzazioni; e perderemmo ciò che hanno da dire gli altri.
È come se uno scienziato non accettasse il dibattito su una propria scoperta.
Il giornalismo – e così l’inchiesta propria di un documentario – è ricerca autonoma, scomoda, fuori dal coro. Va proprio a scovare gli aspetti contraddittori di un evento (anche giudiziario), gli angoli mai battuti, i dubbi più urtanti.
Nel caso di Yara Gambirasio e Massimo Bossetti, nelle narrazioni delle serie tv di Bbc e Netflix non abbiamo potuto ascoltare – in modo chiaro e completo – le argomentazioni della difesa del “muratore di Mapello”, com’è stato soprannominato.
La richiesta dei legali di Bossetti di poter fare un proprio esame del Dna è stata silenziata. Nessuno spazio le due serie tv precedenti hanno concesso a quanto gli avvocati domandano:
- poter ripetere l’analisi delle tracce;
- conservare le tracce di Dna al sicuro, perché non si deteriorino;
- contraddittorio sui risultati degli esami
Sono richieste che si basano sui capisaldi della scienza: la ripetizione di un percorso di ricerca e scoperta; la cura dei dati da analizzare; il dibattito sui risultati.
Le richieste degli avvocati di Bossetti sono peraltro sorrette dalle pronunce della Corte di Cassazione. Eppure non trovano risposta.
IL PARALLELO CON “MAKING A MURDERER”
La situazione di Bossetti e dei suoi legali è identica a quella di Steven Avery, nel Wisconsin (Usa). Parlo del protagonista della docu-serie di Netflix Making a Murderer.
Anche nel caso di Avery, abbiamo il suo legale – Kathleen Zellner – che non riesce a ottenere un’udienza probatoria dalla Corte Suprema dello Stato del Wisconsin.
Questo nonostante un giudice della Corte Suprema Federale americana abbia deliberato che Avery ha diritto a mostrare davanti a un tribunale prove a suo discarico, per chiedere (attenzione: chiedere, non ottenere) un nuovo processo.
Siamo di fronte all’assurdo – nel Wisconsin come in Lombardia – che non è neppure possibile far sentire le proprie ragioni.
Questo non significa che l’americano Avery o il bergamasco Bossetti siano innocenti e abbiano la verità dalla loro parte.
Significa che non viene loro concesso il diritto di parlare, di far valere le loro ragioni, di illustrare le loro tesi.
Yara, parla soltanto la pubblica accusa
Sia nella docuserie della Bbc che nella serie tv documentaristica di Netflix abbiamo la solita pubblico ministero, Letizia Ruggeri, che ripete le cose che si sono apprese dai giornali.
Nelle due serie precedenti troviamo la solita storia di Giuseppe Guerinoni e della madre di Bossetti, Ester Arzuffi.
Abbiamo le migliaia di prelievi per l’esame del Dna, che è costato l’ira di Dio, sulla popolazione della valle bergamasca dove si sono svolti i fatti. Tant’è che ogni genitore che ha visto il figlio o la figlia uccisi, senza il nome dell’assassino, dovrebbe poter chiedere esami in massa del Dna.
Oltre 25.000 analisi del Dna, per poi scoprire che quello di Ignoto 1 era raggiungibile riflettendo sulla disposizione geografica degli eventi.
Tant’è che Ignoto 1 – stando a quanto racconta anche la docu-serie Sulle tracce dell’assassino. Il caso Yara – viene scoperto analizzando un gruppo poco numeroso di frequentatori della discoteca vicino al luogo dove fu trovato il corpo della ragazzina, a Chignolo d’Isola.
Ricordo che, nel dicembre 2011, all’Università di Huddersfield, il professor David Canter – uno dei padri della Psicologia Investigativa – quando mi sentì raccontare delle migliaia di analisi del Dna nella Bergamasca, mi guardò come si guarda un marziano.
Il professor Canter mi disse: “Questi non sanno dove sbattere la testa. Come si può sottoporre un’intera popolazione all’esame del Dna? Vuol dire che non sai dove cercare”.
David Canter se ne intendeva, dato che – grazie al Geographical Profiling e all’analisi delle scene del crimine – a metà Anni Ottanta, a Londra, ha aiutato Scotland Yard ad arrestare i due stupratori e serial killer dei treni.
Sulle tracce dell’assassino. Il caso Yara. La seconda parte
Nel secondo episodio della docu-serie Sulle tracce dell’assassino. Il caso Yara abbiamo una prima sezione che racconta come si arrivò a Massimo Bossetti.
Sono tutte cose che già conosciamo, raccontate mille volte e rappresentate sempre nello stesso modo.
Ad un certo punto, abbiamo l’intervento del primo avvocato di Massimo Giuseppe Bossetti, che non dice nulla di scomodo. Né porta alcuna notizia o fatto d’interesse.
La difesa del “muratore di Mapello” – come fu soprannominato – viene fatta rappresentare da una giornalista. Quasi fosse un portavoce.
La cronista espone alcune tesi dell’avvocato Claudio Salvagni, tanto da farci pensare che i casi sono due:
- l’avvocato Salvagni non è stato sentito dagli autori della docu-serie;
- oppure l’avvocato Salvagni, compresa la struttura della narrazione, non ha voluto apparire
Nessuno, però, ci spiega la sua assenza. Perché il difensore di Bossetti non è stato intervistato?
LA CONFUTAZIONE DI OGNI TESI DELLA DIFESA
Le tesi della difesa sono sostenute, per la parte sul Dna, dalla genetista Sarah Gino, consulente degli avvocati di Bossetti.
Peccato che poi – stratagemma utilizzato da qui in avanti – ogni affermazione che metta in dubbio le tesi della pubblica accusa, venga fatta smentire da un intervento (un giornalista, un inquirente, un consulente) che la delegittima.
Buona parte della seconda sezione del secondo episodio della docu-serie rende esplicito ciò che avevamo colto nel primo episodio di Sulle tracce dell’assassino. Il caso Yara.
Tutto ciò che critica, mette in crisi o demolisce le tesi accusatorie viene demolito– in maniera sistematica – da interventi a favore della posizione colpevolista.
Basta prestare attenzione all’alternarsi delle interviste: una dichiarazione dubitativa sulla “prova regina” del Dna (o su altri elementi minori) viene annullata da una tesi contraria degli inquirenti. O dei suoi consulenti. O di giornalisti che rinforzano la parte accusatoria.
LA SENTENZA FATTA PASSARE PER SCIENZA
C’è da restare sconcertati a vedere, poi, una criminologa che legge addirittura un brano della sentenza di condanna di Massimo Giuseppe Bossetti.
Nelle dichiarazioni precedenti, la criminologa aveva affermato cose evidenti. Che sapevamo già e comunque funzionali all’impianto accusatorio.
In questa fase, siamo all’assurdo per cui diventa “scienza criminologica” il passaggio di una sentenza sul movente dell’omicidio di Yara.
Più avanti, la criminologa fa finalmente il suo mestiere e ci dice che “vi sono ancora molti punti oscuri” su cosa sia accaduto a Yara.
Il passaggio è rinforzato dall’intervento di una giornalista. Peccato che, poi, l’attenzione della docu-serie, anziché approfondire i dubbi e i punti oscuri, si rivolga altrove.
Riprende così la confutazione delle ragioni della difesa, contrapponendo più di una posizione colpevolista a quanto sostengono gli avvocati e i consulenti di Bossetti.
Il crescendo è tale che nella parte finale della docu-serie abbiamo più interventi per delegittimare e confutare le tesi della difesa di Bossetti.
Per finire, la chiusura è – scelta giusta – su Yara Gambirasio. La docu-serie si conclude sull’impegno della fondazione, promossa dai suoi genitori, per aiutare i giovani che vogliono fare sport ma non se lo possono permettere.
Scendiamo finalmente sul piano umano, sulla vittima, sulla restituzione della Yara che guardava speranzosa alla vita?
Purtroppo, questa parte – e qui la narrazione manipolatoria mi pare evidente di per sé – è affidata anche ad alcuni degli inquirenti. Della serie: rinforzo l’autorevolezza e il peso di chi sta da una certa parte.
NARRAZIONE A SENSO UNICO
Quanto al giornalismo, abbiamo addirittura un cronista che, nel parlare dell’affetto della gente per Yara, passa a dire dell’indignazione di tutti dopo che la “verità è venuta a galla”. Dimentica, però, di specificare che si tratta di verità giudiziaria.
Con la docu-serie Sulle tracce dell’assassino. Il caso Yara, si chiude – dopo Bbc e Netflix – la triade di serie tv e film, di narrazioni e di manipolazioni a senso unico.
Ci tengo a ribadirlo: non sono innocentista, su Massimo Giuseppe Bossetti, e prendo ovviamente atto della sentenza di condanna definitiva.
Non è però possibile fare giornalismo, fare inchiesta, fare documentaristica senza tematizzare i punti critici, senza ascoltare le ragioni delle parti in modo imparziale, senza insistere sui dubbi.
Abbiamo così – e la docu-serie Sulle tracce dell’assassino. Il caso Yara – una narrazione a senso unico. Che odora di manipolazione. E non è cosa bella, per chi ama il giornalismo, l’inchiesta e la verità sostanziale dei fatti.
Maurizio Corte
corte.media
Massimo Bossetti, la posizione del suo legale Claudio Salvagni
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Giornalista professionista, scrittore e media analyst. Insegna Giornalismo Interculturale e Multimedialità all’Università degli Studi di Verona. Dirige l’agenzia d’informazioni e consulenza Corte&Media. Contatto Linkedin. Sito web Corte&Media. Email: direttore@ilbiondino.org