Uno dei primi femminicidi mediatici d’Italia oggi è un cold case, nascosto negli archivi della Prima Repubblica.
È un’estate romana sulle sponde vulcaniche del lago Albano, nella provincia della Capitale. Tra le sterpaglie aride, un corpo senza nome né volto viene abbandonato come un sacco di immondizia.
La decapitata del lago. Così ne parlano all’inizio i giornali nel 1955. Solo dopo guadagnerà un nome, che non cancellerà mai quel triste epiteto. Si tratta di Antonietta Longo.
Siciliana d’origine, la giovane donna di trent’anni, si è trasferita nella capitale solo sei anni prima, per lavorare come domestica. Un impiego umile che tuttavia per lei significa libertà.
La morte però spezza ogni speranza, portandole via la vita troppo presto. E in modo raccapricciante.
Se negli anni Cinquanta si pensa ad un omicidio passionale — all’ombra di un amante segreto — oggi in molti credono all’ipotesi di un aborto finito in tragedia.
Prima dell’archiviazione, Antonietta è a lungo protagonista involontaria anche di una violenta onda mediatica, con pochi precedenti. Un caso che spezza la serena noia estiva, sconvolgendo e attirando l’attenzione nel primo dopoguerra.
Settant’anni dopo, il cold case non solo non è mai stato risolto, ma è ormai un caso dimenticato da tutti.
“CRIMINI DIMENTICATI”: IL RACCONTO DI VITE SOSPESE
«C’è chi li chiama cold case. Per noi sono semplicemente crimini e dimenticati». Con questa frase, Simona Cascio e Marcello Randazzo introducono ogni video del loro canale YouTube “Crimini Dimenticati”.
I due professionisti televisivi hanno una missione precisa: ricostruire storie di cronaca nera che sono state trascurate dai media mainstream. Tra queste, la vicenda di Antonietta Longo, un caso che merita di essere ricordato.
Con il loro consueto approccio etico e rispettoso, Simona e Marcello ripercorrono la storia della giovane donna attraverso documenti e testimonianze di esperti.
E, soprattutto, ascoltando il pronipote mai conosciuto dalla vittima. Un aiuto per restituire dignità alla donna e per ricucire una ferita familiare ancora profonda.
Antonietta Longo: la storia della decapitata di Castel Gandolfo
Mascalucia, Catania. Sulle pendici dell’Etna, il 28 luglio 1925 nasce Antonietta Longo, all’anagrafe Antonina.
Dopo Grazia, Francesco e Concettina, l’ultima arrivata è un bagliore di gioia, che illumina l’umile famiglia siciliana.
Ben presto, tuttavia, la serenità dei Longo si spezza: il 4 novembre 1927, Mario — padre di Antonietta — muore a soli 53 anni.
La sua scomparsa getta la famiglia in una profonda crisi economica, costringendola a una scelta dolorosa: la piccola di casa viene affidata alle cure delle suore, per strapparla dai morsi della fame.
IL COLLEGIO: UNA VITA DI LIMITAZIONI
Grazie all’intervento di un cugino, a soli quattro anni Antonietta entra nell’orfanotrofio di Sant’Antonio di Scillichenti (Acireale).
Questo trasferimento segna l’inizio di un nuovo capitolo, lungo ben 17 anni: quasi due decenni costellati da regole e sacrifici.
Se da un lato il collegio le garantisce il necessario per sopravvivere, dall’altro infatti la priva del necessario calore familiare: è un mondo chiuso, fatto di disciplina e privazione, con pochi abbracci.
Raggiunta la maggiore età, la giovane si trova quindi davanti a un bivio: diventare suora o andarsene. Antonietta decide di uscire dal convento: vuole scoprire il mondo e vivere a modo suo.
IL SOGNO DELLA CITTÀ ETERNA
A 21 anni, la ragazza si trasferisce a Camerino, ospite della famiglia della sorella Grazia.
Solo tre anni dopo, la fortuna si presenta alla sua porta. Grazie al cognato, conosce una facoltosa famiglia romana in cerca di una dama di compagnia e domestica a tempo pieno: i Gasparri.
Con grande coraggio, la ragazza accetta la proposta dei coniugi. E, tutta sola, si trasferisce a Roma.
Casa Gasparri si trova in via Poggio Catino 23, nel quartiere africano della capitale. Una zona residenziale le cui vie richiamano le esotiche ex colonie del Regno d’Italia. La giovane donna ci vivrà per sei anni.
Giunta nella città eterna, per la prima volta Antonietta sente di avere davvero in mano le redini della sua vita. Ma qualcuno gliela strapperà via troppo presto.
IL CADAVERE SULLA RIVA DEL LAGO ALBANO
È il 10 luglio 1955. Il sole di mezza estate si riflette sulle acque calme del lago Albano (Roma).
Antonio Solazzi, meccanico, e Luigi Barboni, sagrestano, stanno navigando su un barchino quando Antonio, all’improvviso, si sente male.
I due uomini sono costretti ad accostare in un punto noto come “la macchia”. Il motivo del nome è semplice: la vegetazione lì è particolarmente fitta.
Mentre si addentra nel verde, Solazzi si imbatte in una visione agghiacciante: tra i rovi aridi giace il corpo decapitato di una donna.
Il cadavere è nudo, coperto solo da due fogli piegati del quotidiano Il Messaggero, datati 5 luglio. Al polso, un orologio Zeus segna le 3:36. Le unghie delle mani e dei piedi sono laccate di rosa. Nessun altro indizio.
Scioccati dalla macabra scoperta, Solazzi e Barboni fuggono. Passano 48 lunghe ore prima che i due trovino il coraggio di avvisare le autorità.
L’OMBRA DI UNA GRAVIDANZA
Le condizioni del corpo rendono il riconoscimento problematico. La scienza forense degli anni ’50 offre inoltre ben poche risorse agli investigatori. E, come se non bastasse, sulla scena del crimine le prove scarseggiano.
Sulla donna si distinguono infatti solo sette profonde coltellate.
Tuttavia, grazie all’autopsia, il professor Antonio Carella scopre due dettagli celati, tanto inquietanti quanto importanti per l’indagine:
- la donna ha subito un aborto poco prima della morte e il suo utero è stato asportato;
- la decapitazione inoltre è stata eseguita con precisione chirurgica. Secondo il medico legale, chi l’ha compiuta ha lavorato con crudele meticolosità, servendosi di strumenti adeguati.
Gli inquirenti formulano così una prima ipotesi: dietro il delitto potrebbe esserci la mano di un medico.
Ma senza la testa, il corpo rimane senza nome. E l’indagine si arena sulle morbide rive del lago.
IL TESTIMONE: LA BARCA NEL CANNETO
«Parlerei di dilettantismo allo stato puro», commenta Giuseppe Reina, pronipote della vittima, a “Crimini Dimenticati”.
Le prime indagini si rivelano infatti caotiche, con gli investigatori che inseguono piste disparate prima di essere travolti da un devastante tornado mediatico.
All’improvviso, a dare una spinta alle indagini è un testimone insperato: il gestore di un ristorante locale, che affitta anche piccole barche di legno per arrotondare il magro stipendio.
L’uomo ricorda che il 5 luglio, intorno alle 9 del mattino, una giovane donna snella aveva noleggiato una barca per un giro sul lago. In sua compagnia c’era un uomo dall’aspetto maturo.
Nessuno dei due forestieri ha però lasciato i documenti.
E qui la seconda stranezza: la barca viene ritrovata il giorno successivo abbandonata in un canneto, con un solo remo all’interno.
A questo punto dell’indagine, gli inquirenti non hanno altre piste. Decidono quindi di analizzare la lunga lista di donne scomparse, sperando di risalire all’identità della coppia.
Quando un sottufficiale dei carabinieri bussa alla porta di una delle famiglie dell’elenco, l’investigazione compie un balzo in avanti cruciale.
DUE INDIZI PER UN’IDENTITÀ: LETTERA E OROLOGIO
In Sicilia, i colloqui con la famiglia Longo si rivelano decisivi.
Gli inquirenti scoprono che la figlia più piccola, Antonietta, è scomparsa il 1° luglio, dopo aver lasciato il lavoro a casa Gasparri, dove prestava servizio da sei anni.
Indagando, inoltre, gli ultimi movimenti della ragazza appaiono sospetti.
Quel giorno di inizio luglio, Antonietta telefona da un bar a un certo Antonio, componendo un numero che inizia per 7 — forse un recapito delle zone Appio o Tuscolano. Potrebbe aver passato anche la notte con lui, il suo presunto amante segreto.
Nei giorni precedenti, la donna ha inoltre:
- ritirato tutti i risparmi dall’ufficio postale di piazza San Silvestro: 231 mila lire, un gruzzolo non indifferente per lei;
- comprato un vestito blu da Mases per 6.900 lire;
- lasciato due valigie al deposito bagagli della stazione Termini.
Infine, prima di sparire, la donna scrive una lettera — su carta pregiata e con inchiostro azzurro — alla sorella Grazia.
Spedita il 5 luglio, la lettera svela un segreto: Antonietta parla di una relazione e lascia intendere di essere incinta.
Poi, il dettaglio che cambia tutto.
Tra i pochi oggetti rinvenuti sulla scena del crimine, uno colpisce la famiglia: un orologio Zeus, in metallo bianco con 15 rubini. Un pezzo raro all’epoca, che il figlio di Grazia Longo riconosce subito: lo ha regalato lui alla zia.
La decapitata di Castel Gandolfo ha ora un nome: si tratta della 30enne Antonietta Longo.
UN OMICIDIO PASSIONALE? IL MISTERO SUL FIDANZATO SEGRETO
Depositate il 4 aprile e il 4 luglio, le valigie della vittima vengono trovate alla stazione Termini.
Al loro interno, gli investigatori scoprono alcuni oggetti interessanti: la rivista Mani di Fata, ritagli di corredini per neonati e modellini di carta. Indizi che rafforzano l’ipotesi di una gravidanza.
Ormai, le briciole abbandonate da Antonietta e il suo assassino sembrano puntare tutte verso un’unica ipotesi: un omicidio passionale.
Ma chi era l’uomo misterioso di cui la ragazza era innamorata? Nessuno riesce a fare un nome. Nessuno lo ha mai visto.
Le indagini si concentrano quindi su vari uomini, tra cui Antonio Orlando, fruttivendolo, e Antonio Burrello, con precedenti per truffa: nessuna pista porta però a prove concrete.
Almeno finché gli inquirenti non parlano con i datori di lavoro della vittima: i coniugi Gasparri.
MOLESTATA: I SOSPETTI SU CESARE GASPARRI
Duranti gli interrogatori ai Gasparri, gli investigatori scovano due particolari fino a quel momento taciuti:
- Antonietta era stata licenziata poco prima della sua scomparsa. I Gasparri si giustificano, definendola una mossa per aggirare il fisco.
- Inoltre, mentre la moglie si trovava all’estero, l’uomo era rimasto solo con la vittima in casa. Ricordiamo che siamo nei casti anni ’50.
Le due informazioni sembrano delle piccolezze. Tuttavia assumono presto un peso inquietante alla luce di un’inchiesta giornalistica di Renato Barneschi e Attilio Porcari, pubblicata sul settimanale Realtà Illustrata.
Intervistando Lina Federico — 19enne amica della vittima — i due cronisti scoprono infatti un retroscena preoccupante: Antonietta viveva nel terrore.
Secondo Lina, da tempo la 30enne era vittima delle attenzioni morbose di un uomo che tentava di molestarla, nonostante lei fosse fidanzata con “un bravo ragazzo”. E quell’uomo, a suo dire, aveva un nome preciso: il dottor Cesare Gasparri.
Ma non è tutto. Lina afferma di aver notato nell’amica una sospetta rotondità dell’addome, un particolare che supporta l’autopsia.
All’intervista bomba, il dottor Gasparri reagisce con una querela per diffamazione. Poi tira fuori l’asso nella manica: consegna alla polizia alcune fotografie della vittima in compagnia di un altro uomo.
Ma anche quest’ultima pista si rivela un vicolo cieco, lasciando il caso irrisolto fino ai giorni nostri: uno dei tanti cold case di Roma.
I due femminicidi della Prima Repubblica: Antonietta Longo e Wilma Montesi
«Di certo zia Ninetta non meritava una fine tanto orrenda. Né prima, quando le mozzarono la testa e strapparono le ovaie, né dopo, quando la stampa prese a dipingerla come una poco di buono».
Con queste parole rilasciate al Corriere della sera, il pronipote di Antonietta Longo riassume l’altra faccia della tragedia: una narrazione mediatica indisciplinata, senza regole etiche, che ha trasformato un delitto in uno spettacolo di pubblico consumo.
Il caso della decapitata di Castel Gandolfo è stato infatti uno dei primi femminicidi mediatici d’Italia: un delitto che ha segnato una svolta imprevista nella cronaca nera nazionale.
Dal ritrovamento del corpo alla sua identificazione, la figura della vittima ha subito in particolare una progressiva disumanizzazione, diventando un triste esempio di mercificazione del crimine.
All’inizio descritta come un semplice “manichino senza testa”, il suo stesso nome viene in seguito alterato — da Antonina a Antonietta — e infine la sua reputazione viene infangata. Basta poco infatti per ridurre la sua immagine al cliché della “poco di buono”.
Siamo nel 1955, in un’Italia ancora profondamente maschilista, dove l’adulterio femminile è un reato punito con il carcere. E il delitto d’onore un’attenuante legale.
DUE MARTIRI DELLA SOCIETÀ PATRIARCALE
Il parallelo con Wilma Montesi — trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica solo due anni prima — è inevitabile.
Due giovani donne, di umili origini ma con speranze promettenti, uccise in circostanze misteriose e poi tradite una seconda volta dai media.
Entrambe sono diventate simboli involontari di una violenza di genere che non si esauriva con l’omicidio, ma continuava nella denigrazione della loro memoria.
Le loro morti sono state due casi di cronaca, la loro reputazione un bersaglio per il gossip, infine, il loro ricordo una vittima sacrificabile sull’altare del sensazionalismo.
Un triste esempio di spettacolarizzazione della violenza di genere che inquina ancora oggi il giornalismo.
Dopo 70 anni, i due delitti sono un’oscura finestra sociale sulla condizione femminile nell’Italia degli anni Cinquanta. Ma anche uno specchio impietoso, in cui continuiamo a faticare a riconoscerci.
Anna Ceroni
Agenzia Corte&Media
Data di pubblicazione: 20.03.2025
Al canale “Crimini Dimenticati” abbiamo dedicato un articolo introduttivo, che celebra il loro ammirevole lavoro di giornalismo investigativo.
È possibile ascoltare, a titolo gratuito, i casi anche sotto forma di podcast sulle principali piattaforme online.
Ogni mese su questo blog pubblichiamo inoltre un nuovo articolo dedicato ai casi trattati da Simona Cascio e Marcello Randazzo, per continuare a tenere viva la memoria di chi non ha ancora trovato giustizia:
- Il giallo dell’armadio. Il crimine dimenticato di Antonella Di Veroli
- La scomparsa di Sonia Marra: il cold case dell’Uomo Nero
- Il giallo di Manuela Murgia: la ragazza della Necropoli di Tuvixeddu
- Fabio Rapalli: il cold case nell’eco delle Bestie di Novara
- Armando Blasi e il delitto irrisolto di via Gluck
Antonietta Longo: il cold case secondo “Crimini Dimenticati”
Crimine. Giustizia. Media. ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER MediaMentor™
Autrice e copywriter. Laureata magistrale cum laude in Editoria e Giornalismo, ama analizzare e divulgare crimini e ingiustizie di ogni tipo: dai misfatti di Hollywood ai reati ambientali.


